di GIAMPIERO BUONOMO

Nel confronto tra le ragioni del si e del i no, il Secolo XIX ha intelligentemente messo in risalto, nell’edizione del settembre scorso, la ricaduta della revisione costituzionale sugli organi di garanzia. La questione dei, quorum, però, non attiene solo al momento fisiologico della loro nomina ma, per quanto attiene al Capo dello Stato, anche a quello patologico della sua messa in stato d’accusa. Visto che l’articolo 90 non viene toccato, l’impeachment continua ad essere di competenza del Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri: si tratta non più di 315+630 membri elettivi (473 voti), ma solo di 366 voti, in ragione della riduzione del Senato a 100 membri.

Poiché poi, per effetto dell’Italicum, 340 di questi membri sarebbero eletti in virtù deI premio di maggioranza – sotto la guida di un “capo della forza politica”, mancherebbero appena 26 voti a quest’ultimo per rimuovere il Capo dello Stato in essere. Qui si tocca con mano il “combinato disposto” delle due “deforme”, costituzionale ed elettorale. Quello che mancava al Porcellum – per violare l’articolo 92 della Costituzione – era il fatto che “la disciplina elettorale, in base alla quale i cittadini indicano il «capo della forza politica» o il «capo della coalizione», non modifica l’attribuzione al Presidente della Repubblica del potere di nomina del Presidente del Consiglio dei ministri (…) è la posizione costituzionale di quest’ultimo” (Corte costituzionale, sentenza n. 23 dei 2011). Berlusconi aveva vantato la «nuova fisionomia» della carica di Presidente del consiglio, in quanto ricoperta da «persona che ha avuto direttamente la fiducia e l’investitura dal popolo»: ma quella volta secondo il relatore Sabino Cassese – proprio l’impianto costituzionale garantiva una lettura secundum Constitutionem di quella parte del Percellum.

Stavolta, invece, il rischio é che la moral suasion operi all’incontrario: se la sera delle elezioni il Capo dello Stato volesse esercitare appieno le sue attribuzioni (e scegliere, nell’ambito della maggioranza, un Pella, come avvenne ai tempi di Einaudi, in luogo del capo delta forza politica o di persona da lui designata), rischierebbe che i 340 deputati, con un manipolo di senatori (appena ventisei !), lo deferiscano alla Corte costituzionale per attentato alla Costituzione (un reato “politico”, nel quale, come per l’impeachment di cui all’articolo II sec. 4 della Costituzione degli Stati Uniti, potrebbero rientrare anche i casi di una “cattiva condotta” politico-istituzionale detti misdemeanours).

Consapevole che per la via elettorale può passare un surrettizio mutamento dei rapporti anche tra Potere esecutivo e Quirinale, il coordinamento di avvocati guidato da Felice Besostri ha annunciato che ne ha fatto oggetto della sua memoria di intervento in Corte costituzionale. Tra l’altro, la questione della – “procedura ordinaria” che l’articolo 72 comma quarto della Costituzione impone – per le leggi costituzíonali ed elettorali si interseca proprio con queste caratteristiche: se il “combinato disposto” ha un effetto unitario sull’equilibrio dei poteri, allora anche i vizi procedimentali dedotti nell’approvazione dell’Italicum vanno valutati alla stregua del canone più elevato (impossibilità di porre la questione di fiducia) vigente – per ammissione dello stesso Renzi – per le revisioni costituzionali.

Vedremo se e quando la Corte costituzionale affronterà questo nodo gordiano. Resta però l’impressione che, quel che si è tentato nel 2005 col Porcellum, venga oggi attuato con maggiore scaltrezza. Il popolo sovrano è chiamato, anche grazie all’approfondimento condotto pregevolmente dal Secolo XIX, a leggere nel suo complesso questo disegno e a dichiarare, con il voto referendario, se lo condivide.

L’autore é consigliere parlamentare e saggista

Fonte: Il Secolo XIX