Due processi paralleli sono in corso nel variegato mondo della sinistra e del civismo costituzionale, chiamiamoli per brevità con il nome del luogo della prima riunione Brancaccio e Santi Apostoli: la toponomastica è, almeno apparentemente più neutra della storia e dell’ideologia.
Dato lo scontato appello all’inclusione, tutti e due i processi hanno preso avvio da un’iniziativa di pochi. Non è un peccato capitale, se non per i teorici di movimenti costruiti dal basso: un mito, che come tutti i miti scalda i cuori, ma può annebbiare le menti, se diventa furia iconoclasta, perché per taluno il vero rinnovamento prima che mentale deve essere fisico. Il nuovo non sorgerà mai se non ci si libererà del vecchio, cioè di chi ci ha portato alla rovina per aver fatto parte di assemblee elettive o avuto un ruolo dirigente in un partito politico. Per i più puri basta aver avuto una tessera per doversi mettere da parte.
Se si equipara la politica ad un’attività para-criminale, si rispetti almeno il principio costituzionale che la responsabilità è personale e, pertanto, asteniamoci da processi generalizzati di (e)purificazione. I due processi hanno punti di partenza comuni: si propongono la costituzione di una formazione politica, non di una semplice alleanza elettorale, a sinistra del PD, anche se non necessariamente di sola sinistra, perché comunque deve essere larga, plurale e inclusiva.
La rottura con le politiche governative deve essere altrettanto netta, anche se il giudizio sul centro-sinistra storico non è uniforme, per non dire divergente nei due processi. Diamo per scontato che si voglia attuare la Costituzione: questo è un punto decisivo, perché la fase della sua difesa è finita con la vittoria dei NO il 4 dicembre. L’attuazione della Costituzione apre contraddizioni tra chi ha votato NO e chi ha votato SI’ sulle quali occorre lavorare.
Dobbiamo dare una risposta agli elettori ignoti, quelli che hanno dato al NO quel risultato inaspettato per i fautori del SI’, vanificando campagne mediatiche con costi milionari e, per la prima volta, contando anche su costituzionalisti non apertamente reazionari, tra loro alcuni di quelli che, con linguaggio antico, sarebbero stati definiti “ sinceri democratici”.
Se il punto di partenza è l’attuazione della Costituzione, anche come è stata articolata dal Brancaccio (Sovranità popolare; uguaglianza sostanziale; parità di genere; la democrazia nei partiti e nei movimenti – la separazione fra cariche politiche e cariche istituzionali; cancellazione del pareggio di bilancio nell’articolo 81), il voto espresso il 4 dicembre non è determinante per includere o escludere a priori chicchessia, si chiamasse anche Giuliano Pisapia, purché lavori per un obiettivo comune, perché unitario e definito insieme. Di esso il punto principale è il rispetto della volontà popolare democraticamente espressa sulla forma di Stato e di Governo, come delineato dalla nostra Costituzione: uno Stato delle autonomie e una forma di governo parlamentare.

Se questa scelta è chiara ne discende che per essere credibile il progetto unitario deve partire da un’intesa, come proposta a tutte le forze politiche presenti in Parlamento sulla legge elettorale per le prossime elezioni. In ogni caso ci deve essere una richiesta minima, che è quella di armonizzazione delle leggi risultanti dalle due sentenze di incostituzionalità parziale pronunciate dalla Corte Costituzionale sulle leggi n. 270/2005 e n. 52/2015: lo chiede la sentenza n. 35/2017 e lo sollecita il Presidente della Repubblica e soprattutto lo esige il buon senso. Il referendum ha confermato un sistema parlamentare bicamerale paritario: non si può andare al voto, con soglie totalmente differenti (3% nazionale per la Camera e 8% regionale per il Senato) e contraddittorie, che violano articoli fondamentali della Costituzione, come il 3, il 48 e il 51, sull’uguaglianza del diritto di voto e di candidatura ed anche il 49, perché i partiti politici non sono liberi di presentarsi con le stesse liste nei due rami del Parlamento. L’armonizzazione minima tra le due leggi è semplice: unificare le due soglie d’accesso avendo come base le circoscrizioni regionali ovvero prevedere in alternativa l’elezione diretta di un certo numero di parlamentari, come in Germania, escludere le coalizioni, introdurre la doppia preferenza di genere anche al Senato con previsione di circoscrizioni sub-regionali nelle regioni con più di 14 senatori.
Le due leggi elettorali, anche se alla Camera è previsto un premio di maggioranza per la lista che consegua il 40% dei voti validi, sono due leggi proporzionali, non maggioritarie e tali devono restare, almeno per le prossime elezioni: un parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale non è politicamente legittimato a introdurre premi di maggioranza; il paese ha bisogno di un momento di trasparenza e di verità della sua rappresentanza. Per concludere sul punto se i due processi paralleli non riescono ad accordarsi nemmeno sulle regole del gioco fondamentali – dimenticavo: non sono nemmeno uguali le regole per la presentazione delle liste, con esenzioni dalla raccolta di firme alla Camera, non previste per il Senato – è meglio lasciar perdere ogni tentativo di unificare i processi.

Le alterazioni costituzionali sono state il frutto di un pensiero, che privilegiava a parole la governabilità a danno della rappresentatività: esse non devono essere riproposte con meccanismi elettorali che, dando maggioranze artificiali, facciano sorgere la tentazione di riprovarci, proprio per consolidare una maggioranza fasulla. È uno scenario non improbabile, che abbiamo proprio sperimentato dopo la sentenza n. 1/2014, con l’approvazione di una nuova legge elettorale incostituzionale, l’Italicum, e il ddl cost. Renzi-Boschi di revisione della Costituzione.
Un accordo sulla legge elettorale è una condizione necessaria, ma non sufficiente. La lista unica e unitaria della sinistra e non solo, variamente declinata, è un obiettivo in sé o un passaggio verso una nuova formazione politica? Passate esperienze – a cominciare dalla Sinistra Arcobaleno – dovrebbero far escludere la sola alleanza elettorale percepita come uno stato di necessità per garantire la rielezione di una pattuglia di parlamentari o di superare gli sbarramenti esistenti, in particolare l’8% regionale del Senato. L’unità in quanto tale non è una motivazione sufficiente di voto, se non accompagnata da un progetto di rinnovamento politico e sociale: un progetto convincente, credibile e motivante per superare antiche e recenti divisioni e diffidenze e per convincere a ritornare al voto, tendenzialmente la metà del corpo elettorale; in termini percentuali, nelle elezioni europee 2014 i voti validi sono stati il 55,56% degli aventi diritto.

I dati numerici sono ancora più impressionanti se consideriamo che l’Ulivo nel 1996 ebbe nel maggioritario il 44,95% totalizzando 16.853.342 voti e che, invece, nel 2013 Italia Bene Comune con Rivoluzione Civile e PCL ebbero 10.904.225 voti: quindi 5.361.760 voti in meno al campo “progressista”, detto con beneficio di inventario. Un progetto credibile da costruire nel corso della prossima legislatura dovrebbe mettere in conto, intanto, le prossime elezioni regionali siciliane del 5 novembre e quelle regionali del 2018, in febbraio Lombardia, Lazio e Molise, in aprile Friuli Venezia Giulia e in novembre Basilicata. Troppa carne al fuoco e in assenza di cuochi e fornelli in comune! Basta proiettarsi nel 2019 per incontrare le elezioni regionali di febbraio in Sardegna, di maggio in Abruzzo ed in Piemonte e, infine, di novembre in Calabria e in Emilia Romagna, regione dove più bassa è stata la percentuale dei votanti alle elezioni precedenti, 37,71%. , Se non bastasse per dare un deciso colpo di avvio, nel maggio ci saranno le elezioni per i membri spettanti all’Italia nel Parlamento Europeo.

Non è credibile un progetto politico che non abbia un orizzonte almeno biennale e d’altro canto la crisi della costruzione europea e del suo assetto istituzionale è sotto gli occhi di tutti e un’altra Europa è necessaria se vogliamo riaffermare, al pari della Germania, la supremazia dei diritti fondamentali della nostra Costituzione rispetto alle normative europee. Senza fare i conti con l’Europa non è possibile alcuna discontinuità sostanziale con le politiche economiche e sociali dettate dall’austerità, anche se la compatibilità di bilancio, cioè garantire il finanziamento delle nuove spese, era richiesto anche dal vecchio art., 81 Cost.. Senza un cambio deciso di rotta dell’Unione Europea la questione dell’accoglienza dei migranti, quale che sia la loro natura politica, economica o ambientale diventerà il tema numero 1 della prossima campagna elettorale: per la sinistra, se i valori in gioco sono chiari e indiscutibili, non altrettanto si può dire delle politiche concrete di governo del fenomeno. Allargando lo sguardo all’UE, significa anche discutere di PSE e GUE/NGL e alle variegatissime relazioni paese per paese tra partiti del PSE e della GUE/NGL, all’interno delle due formazioni politiche europee.

Chiaramente prima di impegnarsi per il 2019 si vuol vedere come va nel 2018: ma qui casca l’asino, perché se ci sono troppe timidezze e riserve il progetto non è credibile per gli elettori se non ci credono neppure i suoi promotori. Le legislature dei paesi UE sono quadriennali/quinquennali ed il quinquennio era l’orizzonte temporale della pianificazione sovietica: troppo pensare in tali termini, ma, se non è nemmeno biennale 2018-2019, c’è da dubitare sulla sua validità per un elettorato, che non sia preda di emozioni estemporanee e del tutto emotivo-contingenti. Emerge in connessione a questo tema un problema di fondo sulla natura della proposta di una lista unica ed unitaria: menzionare una sinistra di governo per alcuni è una bestemmia, nel senso che – per rigenerarsi – alla sinistra servono anni di opposizione politica e di mobilitazione sociale. Se si crede nella democrazia come partecipazione e non solo come rappresentanza parlamentare e nelle assemblee, la mobilitazione nella società è un dovere, anche se si partecipa al governo.

La scelta di fondo è che, se si crede nella democrazia costituzionale per la conquista e la gestione del potere, ci si presenta alle elezioni, anche con un sistema proporzionale, con l’ambizione di vincerle perché convinti di avere un programma e un progetto in grado di conquistare la maggioranza degli elettori. Se non sarà così, si verifica se ci sono le condizioni per coalizioni di governo in grado di fare politiche compatibili con il progetto, altrimenti si esercita il ruolo di opposizione coerente e determinata. Non esiste che ci si candidi per fare testimonianza, per conquistare un diritto di tribuna delle proprie idee o per attività di agitazione e propaganda: dobbiamo dare una risposta alla maggioranza dei cittadini, che ha pagato la crisi senza esserne responsabile e che non sopporta le diseguaglianze economiche e sociali che sono cresciute e la mancanza di prospettive per i propri figli e nipoti.

Una sinistra senza aggettivi dice solo dove si sta, non dove si voglia andare tutti insieme: tutto va bene come la si qualifica, da sinistra alternativa a civica (Montanari), democratica, laica, ambientalista, critica, progressista, anticapitalista, ma, con riferimento ai suoi filoni ideali storici (Edgar Morin), anche socialista, comunista e libertaria con abbandono di ogni egemonismo ideologico. Le differenze di esperienze e di giudizi sul passato sono sia un ostacolo ad un’intesa, che una ragione per trovare una sintesi e un massimo di condivisione: per questo il terreno dell’attuazione della Costituzione rappresenta un comune denominatore, che assegna alla nascente formazione politica sia il compito di rappresentanza delle masse popolari, che di una missione nazionale contro la disgregazione sociale, con il prevalere dei particolarismi territoriali e di categoria e degli egoismi, che si alimentano con l’esclusione dei diversi. Questa missione nazionale presuppone una visione ampia dell’orizzonte: una volta era scontato il cosmopolitismo liberale, l’universalismo cristiano e l’internazionalismo socialista e comunista; ora che sarebbe più che mai necessario, perché è in gioco la stessa sopravvivenza del pianeta, prevalgono egoismi nazionali, che le organizzazioni internazionali, prive di una dimensione parlamentare, spesso acuiscono, perché gli stati son rappresentati dai loro governi, sempre con più poteri perché sottratti ai controlli dei loro parlamenti.

L’Unione Europea rappresenta un’eccezione, ma la dimensione democratica del Parlamento, eletto dai cittadini, non è ancora il luogo centrale e principale di indirizzo e controllo politico della Commissione Europea, della tecno-burocrazia del suo apparato, per non parlare della Banca Centrale Europea, che per di più insieme con il FMI hanno la maggioranza nella trojka con cui si commissariano i paesi non virtuosi. La Grecia lo ha sperimentato e l’Italia è a rischio.
Il punto di partenza è l’esistenza di due processi paralleli, che se restano tali in una geometria euclidea non si incontrerebbero mai, una contraddizione in termini se gli obiettivi sono quelli enunciati come comuni, cioè una lista unica e unitaria della sinistra e del civismo democratico costituzionale, che prepari una formazione politica larga, plurale ed inclusiva per l’attuazione della Costituzione e dei suoi principi fondamentali come riassunti dall’art. 3 comma secondo Cost.: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Se questo è il compito occorre che ciascuno vi concorra singolarmente e come membro si un collettivo, associazione, movimento o partito politico che sia, tutti soggetti necessari, specie questi ultimi, se non ci arrendiamo all’antipolitica, ma occorre ripensare ai rapporti tra rappresentanza e partito politico (Tortorella) e dare attuazione anche all’art. 49 Cost. per rendere effettivo il divieto di mandato imperativo, ma esaltare il precetto dell’esercizio delle funzioni pubbliche con disciplina e onore, come richiesto dall’art. 54 Cost..

Quando Giuseppe De Rita stigmatizza la giurisdizionalizzazione della composizione degli interessi, come sintomo della disintermediazione dei corpi intermedi, ignora questo stato di crescente anomìa della vita politica, condotta da una politica diventata personalistica e senza gli equilibri interni ai partiti di massa. Fino a quando le regole del gioco saranno affidate alla legge del più forte, l’esempio degli avvocati anti-Italikum meriterà di essere seguito, imitato e generalizzato, per ottenere dalla Giurisdizione quell’attuazione dei precetti costituzionali che il ceto politico ostinatamente nega.

Felice Besostri