di Felice Besostri – Pubblicato su Mondoperaio |

In Italia vige una norma costituzionale senza pari in Europa: «La sovranità appartiene al popolo». Ma essa così prosegue: «che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». In una democrazia rappresentativa socialmente orientata, con forma di governo parlamentare, le forme principali in cui la sovranità viene esercitata dal popolo sono le elezioni parlamentari e i referendum, assieme alle elezioni per quanto riguarda Regioni e Comuni e un tempo le province, che costituiscono la nostra Italia, una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Il popolo in quanto corpo elettorale è un potere dello Stato comunità, perché esercita la sovranità e perché da esso traggono legittimazione tutti gli altri poteri.

Tuttavia nell’esercizio del proprio potere il popolo incontra un limite invalicabile, costituito dalla Costituzione e dai suoi principi. Ad esempio, la Carta fondamentale definisce le leggi elettorali come leggi ordinarie, ma di una categoria speciale: perché all’art. 72 vengono accomunati «i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale», prescrivendo che la loro approvazione rispetti particolari procedure garantite. Una norma alle quale i voti di fiducia sulle leggi elettorali italleum e Rosatellum hanno inferto ferite non ancora rimarginate, anzi riaperte con il voto di fiducia del 19 giugno sulla legge di conversione del dl. 26/2020 per accorpare in due giornate elettorali uniche elezioni suppletive parlamentari, elezioni regionali comunali e circoscrizionali e il referendum costituzionale sul drastico (ma non per i trentin-sudtirolesi) taglio dei parlamentari.

Nella nostra Carta fondamentale, dunque, è presente una chiara indicazione contro ogni degenerazione plebiscitaria e populista, nelle quali il richiamo continuo al popolo diventa lo strumento per negare o limitare i diritti democratici fondamentili. Invece di voler dare la voce al popolo, che in democrazia se la prende da solo, bisognerebbe restituirgli il diritto di voto, che gli è stato rubato nel 2005 con il famigerato porcellum e mai più restituito, anzi: il furto è stato consolidato con il Rosatellum che con la legge 51 del 2019 è stato reso applicabile anche al Parlamento in formato lilliput.

Già, perché nel frattempo la riforma Quagliariello-Calderoli per il taglio dei parlamentari – che implica la revisione costituzionale degli articoli 56, 57 e 59 della Carta e porta il numero dei deputati da 630 a 400 e quello dei senatori da 315 a 200 – è stata approvata dal Parlamento. Essa ha avuto impulso con la prima approvazione in Senato il 7 febbraio 2019 per concludersi con la seconda definitiva approvazione nella Camera dei deputati l’8 ottobre 2019. Otto mesi – in realtà cinque di lavoro parlamentare per la pausa obbligatoria di tre mesi tra la prima e la seconda approvazione di ciascuna Camera – per una riforma ordinamcntale molto più devastante di quanto i tre articoli toccati potrebbero lasciar immaginare.

Più saggi sono gli svedesi e gli spagnoli, che per le riforme costituzionali impongono che tra prima e seconda deliberazione si tengano elezioni politiche generali

Senza la coraggiosa iniziativa di 71 senatori, che entro tre mesi dalla approvazione della legge in Parlamento hanno formulato la richiesta – come previsto dalla Costituzione all’art. 138 – di indire un referendum confermativo, la riforma sarebbe già entrata in vigore. Quanto più saggi sono gli svedesi gli spagnoli, che per le riforme costituzionali (tutte la Svezia, e la Spagna per quelle che incidono su principi costituzionali e diritti fondamentali) impongono che tra prima e seconda deliberazione si tengano elezioni politiche generali. Questa sarebbe la giusta ed efficace blindatura dell’art. 138 della Costituzione: molto meglio che elevare il quorum ai due terzi di ciascuna Camera o prevedere il referendum approvativo obbligatorio. L’unica altra possibilità per ritardarla, in caso di assenza di referendum confermativo, sarebbe stata quella di un intervento del Presidente della Repubblica che può optare per un rinvio motivato di una legge alle Camere, come previsto dall’art. 74 della Costituzione.

Ebbene un motivo al quale il presidente Mattarella avrebbe potuto fare riferimento c’è. Si tratta della nuova formulazione del terzo comma dell’art. 57 della Costituzione nel nuovo testo approvato dalle due Camere. Tale formulazione, come vedremo al termine del nostro ragionamento, è palesemente incostituzionale. Partiamo innanzitutto dal testo della Costituzione. Ad oggi, l’ad. 57 comma 3 recita: «Nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a sette; il Molise ne ha due, la Valle d’Aosta uno». Secondo la modifica costituzionale, fortemente voluta dal M5s, varate così riformulato: «Nessuna Regione o Provincia autonomi può avere un numero di senatori inferiore a ire; il Molise ne ha due, la Valle d’Aosta uno».

Nel progetto di riforma vengono dunque equiparate le Province autonome alle Regioni al fine dell’attribuzione di un numero minimo di senatori ridotto da 7 a 3: un escamotage per favorire il Trentino-Alto Adige, sottraendolo – pur senza mai senza nominarlo esplicitamente – al destino generalizzato di una riduzione del 36,50% della rappresentanza sia alla Camera che al Senato. Infatti è l’unica Regione del gruppo beneficiario del precedente numero minimo di 7 senatori a subire la riduzione di un solo seggio (potendo contare su due Province autonome al suo interno, meritevoli ognuna di un minimo di 3 senatori): una diminuzione della rappresentanza corrispondente al 14,28%, mentre il numero minimo di senatori per le altre Regioni (Molise e Val d’Aosta esclusi) è stato ridotto del 42,85%.

I partiti e i gruppi politici organizzati non si accontentano del monopolio delle cancidature: vogliono nominare i parlamentari

Sia chiaro: per sollevare una questione di costituzionalità la legge 83 del 1957 richiede soltanto che essa non sia «manifestamente infondata». A questo proposito dobbiamo ricordare che l’art. 57 della Costituzione, nella parte in cui indica che il Senato viene eletto «su base regionale», non è stato modificato. Inoltre l’assegnazione dei senatori continuerebbe ad essere effettuata «in proporzione alla popolazione»: delle Regioni e ora anche delle Province autonome. Questi elementi resterebbero intatti. Ma, questo è il punto, a differenza dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane, delle Regioni e dallo Stato, le Province autonome non sono parti costitutive della Repubblica, come si evince dall’art. 114 della Costituzione, che evita proprio di menzionarle. Nella nostra Costituzione non esistono le Province autonome, come esistono invece Comuni e Regioni, ma solo e soltanto la Provincia autonoma di Trento e la Provincia autonoma di Bolzano che insieme costituiscono la Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol (art. 116.2 Cost) (1).

Anticipiamo nel linguaggio corrente la prossima riforma, che ci verrà proposta dai trentini-sudtirolesi, forti del loro maggior peso nel Senato (da 7 su 315 elettivi, il 2,22%, diventano 6 su 200, un 3% tondo tondo). La ragione è semplice: per eleggere un senatore a loro bastano 171.579 abitanti, mentre i lombardi devono essere in 313 mila e i laziali (romanisti compresi) in 306 mila. Inoltre la presenza di una minoranza tedesca nella Provincia di Bolzano non giustifica certo un trattamento preferenziale: perché le minoranze linguistiche friulane e sarde – ad esempio – sono molto più consistenti, e ad esse viene riconosciuta la medesima tutela in norme statutarie o di attuazione dello Statuto speciale.

E ancora: Calabria, Sardegna, Marche, Liguria, Abruzzo Friuli-Venezia Giulia sono tutte più densamente popolate del Trentino-Aldo Adige (1.072.276 abitanti ad inizio 2019, dati Istat, incremento minimo rispetto al 1.029.475 del censimento generale del 2011): ma avranno, con la vittoria del sì, un minor numero di senatori o tuttalpiù pari, come accadrebbe per la Calabria (1.947.131 abitanti), che ospita quasi il doppio degli abitanti della Regione settentrionale favorita dalla riforma. Per questi motivi la violazione degli articoli 3 («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge»), 48 («Il voto è personale ed eguale») e 51 («Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza») della Costituzione pare di solare evidenza. per questo che il taglio dei parlamentari non deve entrare in vigore. Il modo più semplice è votare un bel NO: ma bisogna anche cambiare le legge elettorale vigente, il Rosatellum consolidato dalla legge n.51/2019.

Il governo Gentiloni ottenne l’approvazione della legge n. 165/2017, per la cronaca il Rosatellum, in violazione dell’art. 72 c. 4 Cost. con ben 8 voti di fiducia: 3 alla Camera (grazie alla entusiastica adesione della presidente Boldrini, come nel 2015 con l’Italicum), e ben 5 al Senato, con un presidente neghittoso e poi pentito. Nei ricorsi questo era il motivo centrale di incostituzionalità. A quel governo ne sono succeduti ben due (il giallo-verde-bruno e il giallo-rosa, ma sempre presieduti dal prof. Conte), che ha delegato il sottosegretario on. Fraccaro all’Avvocatura di Stato, mentre nel primo era affidata al leghista Giorgetti.

L’azionista di maggioranza è sempre stato il M5s, nemico del Rosatellum e dei voti di fiducia sulle leggi elettorali: la difesa del Rosatellum dipende dal partner Pd? L’ha chiesta in cambio del taglio dei parlamentari del 36,50% tranne che al Senato per il Trentino/Sudtirolo, tagliata del 14,29% , dove ha fatto eleggere i suoi candidati 2018 (Gianclaudio Bressa al Senato e Maria Elena Boschi, ora d’Italia Viva, alla Camera?).

Basta questo per stare zitti di fronte ad un Salvini che chiede di andare subito al voto, quando basterebbe rispondergli che non si può votare per la quinta volta dal 2006 con una legge di sospetta costituzionalità? La maggioranza ha presentato, senza troppi entusiasmi, un ddl elettorale A.C. 2329 di impianto proporzionale con soglia di accesso del 5%, ma con liste bloccate che passano da 4 a 8 seggi, quindi a rischio di annullamento secondo i principi della “storica” sentenza n. 1/2014. Se le candidature sono monopolio di partiti non disciplinati da una legge di attuazione dell’art. 49 Cost., allora sono meglio i collegi uninominali, compatibili con una legge elettorale proporzionale come era quella del Senato prima della sciagura dei referendum Segni e delle leggi maggioritarie del sistema Mattarellum.

Tuttavia i partiti e i gruppi politici organizzati – come il M5s, che non è e non sarà mai un partito (semmai, se non esce dalla crisi identitaria, sarà un “andato“) – non si accontentano del monopolio delle candidature: vogliono nominare i parlamentari. In altre parole abrogare tacitamente l’art. 67 della Costituzione per cui ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione senza vincolo di mandato: intollerabile per chi non vuole un Parlamento composto di persone che servono le istituzioni con rigore morale, come richiede l’art. 54 della Costituzione. Il disegno è condiviso da maggioranza e opposizione: che si sente la maggioranza di domani, ma non ha fatto i conti con gli elettori e i tribunali attivati con un’iniziativa che ho promosso dinanzi al Tar Lazio per impedire il voto referendario a settembre. Non bisogna nemmeno dimenticare che potranno accedere direttamente alla Corte Costituzionale sia le regioni punite dal taglio che il Comitato referendario dei senatori.

Note:

(1) – Dovremmo abituarci a chiamarlo Trentino – Südtirol/Tirolo del sud: basta con l’ipocrisia alto-atesina, nome inventato come se creassimo una Provincia autonoma costituita da Rovigo, Ferrara e Ravenna e la chiamassimo Bassa Padana o Delata Padana.