di Fabio Vander

Il mio è un intervento politico. Improntato all’unità della sinistra. Siamo nel 2018. Nella ‘fatal Livorno’. Siamo a 128 anni dalla scissione socialista da anarchici e operaisti del 1892, siamo a 97 anni dalla scissione comunista di Livorno, siamo a 96 anni dalla scissione/espulsione dei riformisti di Turati e Matteotti dal PSI massimalista; a 71 anni dalla scissione socialdemocratica di Saragat; a 54 anni dalla scissione del PSIUP del 1964. Non parlo della espulsione del gruppo del Manifesto, che comunque poi dette origine ad un partito alternativo al PCI.

Non parlo neanche delle scissioni degli ultimi decenni. Come si sa la storia si ripete: prima in tragedia, poi in farsa.

Ripeto: siamo del 2018. Facciamo un punto. Cerchiamo nella unità della sinistra una prospettiva non solo per il socialismo, che per me significa critica del capitalismo, ma per la democrazia italiana.

Voi questa iniziativa di oggi la avete intitolata “Turati aveva ragione”. Sono le parole di Terracini del marzo 1982, in una intervista al TG2, in cui insieme al riconoscimento dell’avverarsi della “profezia” di Turati c’era però anche altro; vi si diceva infatti che nel 1921 tutti, socialisti compresi, erano presi dal “grande fuoco” della rivoluzione sovietica, vedremo nella mia ricostruzione l’enfasi con cui Turati salutava la rivoluzione d’Ottobre, solo “in tempi successivi venne maturando di nuovo la via evoluzionista”. Nessuno allora poteva prevedere come sarebbero andate le cose. Neanche Turati. Fra rivoluzione sovietica e nascita del fascismo la scelta era quasi obbligata.

Del resto così come si ricordano le parole di Terracini a tanti anni dai fatti, bisogna ricordare anche le parole di Riccardo Lombardi in un altro drammatico dopoguerra. Nel 1949 infatti Lombardi scriveva: “all’epoca della scissione di Livorno, e notate che anche allora ero personalmente dello stesso parere, non i socialisti avevano ragione, ma i comunisti, non D’Aragona aveva ragione, ma Gramsci”.

Anche queste parole bisogna ricordare. Perché se “la storia è sempre storia contemporanea” pure non bisogna mai imporre al passato le volizioni del presente. Lo scambio fra passato e presente deve essere sempre equilibrato e controllato. Perché, come diceva Benedetto Croce, “la storia non è mai giustiziera, è giustificatrice”, bisogna cercare di capire i fatti e le persone, collocandole nel loro tempo.

Del resto Terracini concludeva l’intervista del 1982 sostenendo che era ormai tempo di superare il “grande scisma” fra comunisti e socialisti.

Ecco io partirei da qui.

Turati interviene al XVII Congresso socialista di Livorno, quello celebre della ‘scissione’ comunista, mercoledì 19 gennaio 1921. La mattina erano intervenuti Bordiga e Serrati, due giorni prima Terracini, per conto della “frazione comunista”.

Il tema del giorno era ovviamente la questione comunista. Turati condannava la scissione che considerava uno strascico della “psicologia di guerra”; a questa logica opponeva una riflessione sui rapporti fra socialismo e comunismo. I riformisti rivendicavano “diritto di cittadinanza nel socialismo, che è il comunismo, che per noi socialismo comunista e il comunismo socialista, perché in queste denominazioni artificiose, ibride, evidentemente l’aggettivo scredita il sostantivo, e il sostantivo rinnega l’aggettivo”.

Dunque Turati voleva salvare l’unità del partito ma senza “artificiose” distinzioni fra comunisti e socialisti.

Di contro al comunismo rozzo degli utopisti e ai “socialismi antirivoluzionari” di fine ‘800 Turati difendeva “il comunismo critico di Engels e Marx, il comunismo classico”. C’era una divisone dei campiti fra socialismo e comunismo. Il socialismo appartiene ad una fase iniziale della rivoluzione, quella del “collettivismo”, che si applica “ad una società in periodo classico capitalistico”, a questo periodo sarebbe seguita la “futura società socialista” propriamente detta, in cui regnerà “il concetto più vasto: ‘a ciascuno secondo i suoi bisogni’”.

Dunque il rapporto fra socialismo e comunismo è fra due fasi dello stesso processo. Turati rivendicava con forza la sua appartenenza a questo processo storico di fuoriuscita dal capitalismo: “Compagni, questo comunismo, in un senso o nell’altro, questo comunismo che è il socialismo può anche espellermi dalle file di un partito, ma non mi espellerà mai da sé stesso”.

La vera forza, anzi grandezza, dell’intervento di Turati a Livorno è questa, questa capacità di rivendicare una “unità del Partito” non come fatto formale o difesa di una classe dirigente, ma sapendo vedere lontano, prefigurando un processo politico che era un processo storico: dalla rivoluzione socialista alla società comunista.

L’intervento continuava secondo una logica stringente: “questo comunismo, questo socialismo e questo comunismo, non solo noi lo abbiamo imparato negli anni della giovinezza sui testi sacri -direi quasi- della nostra dottrina, ma lo abbiamo in Italia, per solo merito di anzianità, ripeto, insegnato alla massa, al Partito nostro”. Il partito di Turati si era dunque formato non solo sui “testi sacri” di Marx ma con una lunga pedagogia politica, sempre cercando di tenere insieme la “fatica del concetto” con “la conquista del potere da parte del proletariato costituito in Partito indipendente di classe”.

Con mossa a sorpresa Turati rivendicava contiguità proprio con l’intervento di Terracini; condivideva cioè “questa conquista del potere che il compagno Terracini -mi pare ieri /rectius due giorni prima/- enunciava come segno di distinzione tra la loro schiera e la nostra, fra il programma antico e quello nuovo” (p. 323). Anzi Turati sosteneva che i comunisti erano arrivati tardi, perché in verità i socialisti italiani già nel 1892 si erano separati da operaisti e anarchici perché volevano essere un “partito politico”, per muovere proprio “alla conquista del potere politico”. Insomma il fine fra socialisti e comunisti era comune.

Dov’era allora la differenza? In aspetti marginali, tattici. In questioni concernenti la “pura e semplice valutazione della maturità della situazione e la valutazione di alcuni mezzi episodici”.

Il “mezzo” dei comunisti era la “dittatura del proletariato”. Turati la rifiutava senz’altro come “dittatura di minoranza”, che sarebbe “imprescindibilmente dispotismo tirannico”; come detto la considerava uno strascico della “psicologia di guerra”, di “vecchie mentalità blanquiste”. E invece la rivoluzione non è “il fatto volontario di un giorno o di un mese o di qualche mese”, ma processo “che procede per lente conquiste, che dura dei decenni”.

Una concezione della rivoluzione in Occidente quella di Turati. Anche questa però non espressamente anti-comunista, perché assolutamente consentanea con quella che sarebbe stata la riflessione di Gramsci appunto sulla rivoluzione in Occidente, sviluppata certo nei Quaderni del carcere, ma già nelle Tesi di Lione (del 1926, scritte con Togliatti).

Non a caso subito dopo Turati gridava alla platea: “Noi siamo figli del Manifesto del 1848. Tutti!”. Segnatamente, precisava, del Manifesto rivisto da Engels nei primi anni ‘90 dell’‘800, quando aveva escluso del tutto la “possibilità insurrezionale”. Turati citava anche i Fondamenti del comunismo sempre di Engels in cui espressamente si ammetteva che la rivoluzione non può essere “la insurrezione di un giorno” ma una “lotta dura, continua, che dopo una conquista ne assicura un’altra, e poi un’altra e solo nei decenni finalmente trionfa”. L’idea di socialismo di Turati era debitrice dall’ultimo Engels.

Turati si avviava a concludere il suo intervento pronunciando la sua celebre “profezia di Barbanera” come la chiamava ironicamente.

Iniziava denunciando ancora una volta il “culto della violenza”, sia fisica che morale, convinto che “il comunismo di Marx e di Engels è la negazione di tutte queste violenze in tutto il mondo, tutto questo tra qualche anno non potrà più esistere”. Questa in verità era una profezia destinata ad essere falsificata dalla storia. Presto il fascismo si sarebbe scatenato in tutt’Italia, contro in primis le strutture politiche ed economiche dal partito socialista, travolgendo il sistema parlamentare liberale, mentre il nazismo avrebbe preso il potere in Germania e Stalin negli anni ‘30 avrebbe scatenato il Grande Terrore in Unione Sovietica, infine il mondo intero sarebbe stato inghiottito dalla seconda guerra mondiale.

Barbanera qui fallisce profezia. Il ‘900 sarebbe stato precisamente il secolo della violenza e proprio fisica, morale e materiale, costringendo lo stesso movimento operaio a cercare vie che della violenza dovettero avvalersi a loro volta. La strada della “evoluzione” sarebbe stata sì ripresa, ma solo dopo la violenza, dopo che la violenza aveva segnato di sé l’intera epoca: dalle guerre mondiali ai totalitarismi. La storia avrebbe “dato ragione” alla via riformista, ma avrebbe dato torto alla interpretazione del ‘900, che sarebbe stato age of extremes non dell’evoluzione e del progresso.

L’ultima parte dell’intervento fu sulla rivoluzione sovietica. Turati distingueva. Il suo giudizio è articolato. Altro è il “mito russo”, un modello astratto da replicare ovunque, altro “la rivoluzione russa, cui applaudo con tutto il cuore (grida di ‘Viva la Russia!’)”. Nel bolscevismo Turati vedeva una forma positiva di opposizione al capitale mondiale: “avrà una grande influenza nella storia del mondo come opposizione all’imperialismo dell’Intesa”. Non ne accettava la componente nazionalistica, di “nazionalismo russo”, né la riduzione a “mito bolscevico”, cioè a fatto ideologico, con il suo che “di religioso”; questo sì deve “evaporare”, per lasciare il passo alla rivoluzione come fatto reale e prosaico.

Al modello dei soviet “degli operai e dei contadini”, oltre che dei “soldati”, si doveva invece sostituire il “grande Parlamento proletario in cui sarà riassunta tutta la forza intellettuale, politica e tecnica di tutto il proletariato italiano alleato al proletariato di tutto il mondo”. Anche qui la “profezia” non fu azzeccata, invece che il “grande Parlamento proletario” fu il fascismo.

Comunque il giudizio di Turati sul comunismo novecentesco restava complesso. Plaudiva alla rivoluzione russa, ma ne criticava la componente ideologica, la vedeva come un punto di resistenza allo strapotere dell’“imperialismo”, ma la rifiutava come modello semplicemente da importare, la riteneva capace di suscitare energie rivoluzionarie nei grandi paesi arretrati (Cina, Giappone, Asia minore), ma non tale da sic et simpliciter sostituire l’“Internazionale maggiore”, quella socialista.

Appunto un ragionamento articolato, che presuppone una visione della storia, della politica e del movimento operaio entro di esse. Così quando concludeva dicendo che in futuro tutti i socialisti si sarebbero ritrovati sulla “nostra via”, quella della “azione graduale”, indicava certo un modello di strategia per l’Occidente, ma anche un modello di tattica, tanto che richiamava il suo discorso del 1920 (Rifare l’Italia!), tutto centrato sulla apertura a Giolitti e ai moderati.

In conclusione l’intervento di Livorno testimonia di una grande personalità politica e morale integralmente calata dentro i problemi, i meriti e le aporie anche della sinistra storica italiana.