«Avanti popolo, non più frontiere,
stanno ai confini rosse bandiere.
(una delle strofe dimenticate di Bandiera rossa)

La scelta del titolo va giustificata. Non era esatto parlare di “politica internazionale”, i cui soggetti sono principalmente gli Stati e le organizzazioni internazionali. Men che meno di “politica estera”, espressione più adatta per definire l’azione nello scenario internazionale di un singolo Stato o di un’entità sovranazionale, come l’Unione europea. “Per una politica internazionalista” richiama un contenuto politico ideologico per di più logorato: l’originario internazionalismo socialista (Proletarier aller Länder vereignit euch, Proletari di tutto il mondo unitevi) è stato seppellito dalla prima guerra mondiale nel XX secolo, quando quasi tutti i partiti della Seconda Internazionale votarono a favore dei crediti di guerra chiesti dai rispettivi governi. Il socialismo italiano fu una delle poche eccezioni, ma salvò la sua anima su un compromesso: “Né aderire, né sabotare”. Manes Sperber, quando accettò il Premio della Pace degli editori tedeschi nel 1983, notò con amarezza come le stesse persone che avevano a milioni manifestato contro la guerra in Europa nel giro di poco tempo si sparavano addosso da opposte trincee. Il tradimento dell’internazionalismo tuttavia non fu solo quello e non si fermò lì: paradossalmente fu il frutto di una vittoriosa rivoluzione, quella dell’ottobre 1917, che senza la guerra non sarebbe potuta scoppiare e soprattutto trionfare. Con la vittoria bolscevica e la nascita dell’Urss, e soprattutto con il suo consolidamento politico, economico e militare sotto la guida del Pcus, gli interessi dello Stato guida coincisero con quelli del campo socialista e dei movimenti rivoluzionari e di liberazione di tutto il mondo.

Nella sua contrapposizione con il capitalismo e l’imperialismo, via via trasformata da ideologica in strategica e militare, l’Urss incentivò lotte di liberazione soprattutto nazionale, piuttosto che rivoluzionaria, ad eccezione del sostegno a quella cinese. Il sostegno aveva sempre un prezzo da pagare. In Europa l’espansione del sistema sovietico fu affidato all’Armata Rossa, piuttosto che alla conquista del potere del partito comunista locale: il fallimento delle rivoluzioni in Baviera e in Ungheria nel primo dopoguerra furono una lezione non più dimenticata. Chi lo dimenticò, come i comunisti greci nel secondo dopoguerra, pagò un duro prezzo. Quando gli interessi dei comunisti locali si scontravano con quelli dell’Urss non vi era discussione su quali dovessero essere sacrificati: si trattasse del rispetto delle sfere di influenza decise a Yalta od anche del Patto Ribbentrop-Molotov, come i comunisti tedeschi e polacchi ebbero modo di apprendere.

Con questi schemi la divisione nella sinistra si accentuava La subordinazione nel complesso andava bene e fu accettata, anche perché compensata generosamente con finanziamenti ai partiti comunisti e ad organizzazioni collaterali come i movimenti per la pace, la Fmjd o la Fsm: ma anche per adesione spontanea di masse in ogni parte del mondo. Un meccanismo semplice: la liberazione dalle proprie catene e la vittoria erano possibili grazie all’esempio della rivoluzione russa e all’esistenza dell’Urss. La soppressione della libertà, la burocratizzazione crescente, persino gli stermini di massa o le deportazioni di intere popolazioni, l’universo concentrazionario dei Gulag, sui quali si reggeva il potere, erano ignorati, e bastava uno sputnik o una navicella spaziale per rinverdire il mito. Rispetto ai valori umanitari ed internazionalisti alla base degli ideali socialisti e comunisti la parata militare sulla Piazza Rossa il Primo Maggio, giorno internazionale del lavoro, avrebbe dovuto gettare qualche sospetto. Tuttavia era meglio tenerselo per sé altrimenti si sarebbe favorito il nemico imperialista, emblema del capitalismo, cioè l’avversario di classe, che per di più era l’avversario dell’Urss, primo Stato socialista del mondo. Con questi schemi la divisione nella sinistra si accentuava. In Europa i partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti fecero bongré, mal gré una scelta di campo della parte occidentale. D’altro canto i loro partiti fratelli nella parte centrale e orientale erano stati unificati a forza in partiti pseudo-unitari a guida comunista (anche se il nome non compariva: Sed nella Ddr, Poup in Polonia, Posu in Ungheria) o semplicemente assorbiti; e la loro dirigenza soppressa negli altri paesi del Patto di Varsavia. Nella sinistra europea e italiana era logico che rivolte operaie come quella di Berlino del 1953, ovvero operaie e studentesche come nell’Ungheria del 1956, e persino quelle guidate da un partito comunista come nella Primavera di Praga del 1968, non suscitassero emozione, sostegno e partecipazione unanime e di massa, e nemmeno una riflessione di fondo, se non in qualche cerchia ristretta di intellettuali. L’incomprensione dei cambiamenti a Est continuò fino alla nascita di Solidarnoč (1980) e al colpo di Stato di Jaruzelski nel 1981. Non si ricordano presidi o manifestazioni di massa, malgrado lo stesso Pci dopo l’invasione della Cecoslovacchia avesse preso le distanze dal cosiddetto campo socialista. Sulla Polonia una sinistra più attenta e meno condizionata da antichi riflessi avrebbe potuto saldarsi con il mondo cattolico su un terreno avanzato di sostegno alle libertà politiche e sindacali, e per una transizione pacifica o almeno socialmente meno traumatica. Il fatto che in pochi mesi Solidarnoč superasse i 10 milioni di membri doveva imporre ben altri ragionamenti. Pochi anni prima, nel 1975, con la Rivoluzione dei garofani in Portogallo si registrò ancora una volta la schizofrenia di una sinistra che dall’accettazione del regime democratico nel proprio paese (e spesso dall’esserne una protagonista, quando non un baluardo, come i comunisti italiani) non faceva discendere una scelta di valore valida per altri: l’improbabile rivoluzionario Otelo de Saraiva Carvalho o il militare puro Vasco Gonçalves, con un modello peruviano in testa, attiravano la simpatia maggioritaria della sinistra piuttosto del socialista democratico Mario Soares. Una bella caduta passare da Tito, Nehru, Sukarno o Bandaranaike a Chavez, Ahmadinejad, Lukashenko o Castro.

Negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso soltanto con la Spagna, la Grecia e con il Cile la sinistra ebbe un atteggiamento solidale unitario, e tra gli eroi per la prima volta i socialisti ebbero un posto d’onore con Salvador Allende e Alekos Panagulis (come più tardi Brandt e Palme in quanto campioni della pace e di uno sviluppo equilibrato dell’asse Nord-Sud). A sostegno dell’opposizione spagnola, pur differenziata e in contrapposizione, agivano tutte le formazioni democratiche, o anche gruppi extraparlamentari: non era la stessa cosa sostenere il Psoe o il Pce, il Grapo o l’Eta o i democristiani di Ruiz Jimenez. Tuttavia i condizionamenti interni si fecero sentire dopo le prime elezioni libere. Il successo di Adolfo Suarez e dei socialisti non era previsto, in un paese latino e cattolico il Pci si aspettava una vittoria di Santiago Carrillo e dei democristiani. La conseguenza fu il rapido smantellamento dei Comitati di sostegno: non ne esisteva più nemmeno uno quando il colonnello Tejero occupò le Cortes il 23 febbraio 1981. Nello stesso periodo gli orrori del capitalismo e del colonialismo non erano da meno, e anche più brutali, se consideriamo gli interventi in Asia, Africa e America Latina. Non si può dimenticare che nel secondo dopoguerra l’Europa aveva ancora domini o colonie intensamente sfruttate nel Sud-est asiatico, nel subcontinente indiano e in Africa; e l’America Latina ed il Caribe erano il cortile di casa degli Stati Uniti, che in forza della Dottrina Monroe si ritenevano gli arbitri inappellabili di chi dovesse governare e in nome di quali interessi, tra cui primeggiavano quelli delle multinazionali Usa. La sinistra o era paralizzata dalla politica estera e dai vincoli di alleanze politico-militari, quando era al governo, ovvero aveva obiettivi facili di lotta quando era opposizione. Per scatenare la solidarietà e le manifestazioni di piazza contro l’imperialismo Usa e il colonialismo francese, britannico o portoghese il meccanismo era abbastanza semplice. In queste azioni l’arco di influenza si estendeva ben al di là dei militanti dei partiti di sinistra, ma coinvolgeva la sensibilità pacifista dei cattolici, dei militanti per i diritti umani e delle organizzazioni giovanili. Nelle manifestazioni contro la guerra nel Vietnam o a favore delle lotte delle colonie portoghesi e di altri movimenti dell’Africa Australe erano attivi anche parti consistenti dei settori giovanili dei partiti socialisti democratici, e l’Internazionale Socialista giocò un ruolo di punta contro l’Apartheid e gli squadroni della morte in America Latina.

Un ruolo talmente rilevante che quando il Boeing della Pan Am fu abbattuto nel 1988 a Lockerbie e nel disastro trovò la morte Berndt Carlsson, già segretario generale della Internazionale Socialista, si sospettò la mano di servizi segreti sud-africani (invece era il “rivoluzionario antimperialista” colonnello

Gheddafi l’ispiratore). Lo schermo ideologico ebbe effetti concreti anche sul comportamento della sinistra nelle istituzioni, con l’avversione al Piano Marshall e l’ostilità alla Ceca ed alla Comunità economica europea: sul trattato di Roma il Psi si astenne e il Pci votò contro. Durante la crisi dei missili a Cuba (ottobre 1962) la sinistra non ebbe dubbi (tra i manifestanti a Milano, con un morto, c’erano i giovani della Fgsi, benchè il Psi facesse parte della maggioranza di governo). Ripensandoci, una forma di strabismo: perché era una provocazione piazzare i missili intercontinentali sovietici a qualche centinaio di miglia dalla costa Usa e in grado di colpire le maggiori città americane, mentre c’era stata una risposta debolissima quando gli Stati Uniti organizzarono l’invasione della Baia dei Porci (aprile 1961), con una chiara violazione del diritto internazionale. L’amore per Cuba è stato per la sinistra un dato fermo, anche qui più per il suo significato storico che per meditata adesione ad un sistema di governo non democratico e con tratti di caudillismo incompatibili con i principi teorici e valoriali della sinistra (repressione dei delitti d’opinione e dei cosiddetti comportamenti asociali e degli orientamenti sessuali). La guida della politica estera, più anti-americana che pro-sovietica (nel frattempo la divisione tra Urss e Cina Popolare si era ripercossa nel movimento comunista mondiale), invece che ispirarsi a valori e principi, ha condotto ad appoggiare la rivoluzione khomeinista islamica perché diretta contro lo Scià, un alleato degli Stati Uniti, senza preoccuparsi dell’instaurazione di un regime teocratico e repressore. Una simpatia che non venne meno neppure quando la repressione colpì dura duramente a sinistra e che continua fino ai giorni nostri, sia pure in cerchie più ristrette: una bella caduta passare da Tito, Nehru, Sukarno o Bandaranaike a Chavez, Ahmadinejad, Lukashenko o Castro.

L’incontro dell’Europa con l’esilio cileno sarà uno dei fattori più dinamici del rinnovamento politico latino-americano La politica estera deli Stati “amici” ha sempre fatto aggio su un qualsiasi altro criterio. I regimi arabi potevano imprigionare e torturare i comunisti, che spesso erano anche cristiani o ebrei, purché fossero fedeli alleati dell’Urss. I partiti Baath (partiti socialisti panarabi) erano ospiti riveriti ed applauditi dei congressi del Pci e del Psi anche quando si trasformarono in partiti unici con a capo un dittatore o addirittura una dinastia dittatoriale familiare, come gli Assad in Siria. L’invasione miliare dell’Afghanistan non ha emozionato nessuno quando fu operata dall’Armata Rossa. La repressione cinese dei tibetani o degli uiguri commuove molto meno di quella delle popolazioni di discendenza indigena nell’America Centrale. Probabilmente il soprannome del subcomandante Marcos è più facile da memorizzare di quello di qualche leader uiguro o tibetano, che non sia il Dalai Lama. L’indifferenza per i genocidi cambogiani e ruandesi non è giustificata, per una sinistra pronta a un serio esame di coscienza, dal fatto che gli Stati democratici non avessero invocato l’ingerenza umanitaria. Le contraddizioni altrui sono sempre un comodo alibi per le proprie. La presa di posizione da una parte o dall’altra nel conflitto israelo-palestinese sono una ferita tuttora aperta nella sinistra, che nelle sue varie sfaccettature ha ragionato prigioniera della logica del “nemico del mio nemico è mio amico” piuttosto che mobilitarsi per la pace, la cooperazione fra i popoli, la fine dell’occupazione e il diritto alla sicurezza della popolazione civile di entrambi gli Stati. Un altro difetto è che il la alla protesta e alla mobilitazione era sempre dato dalla cronaca piuttosto che da azioni di lunga durata come il boicottaggio dei prodotti di un paese e/o delle società implicate nello sfruttamento dei popoli, come quelle minerarie nel Sud-Africa o quelle agro-industriali in America Latina e Africa. Passata l’emergenza calava l’indifferenza: particolarmente drammatica è stata la solitudine, dopo la liberazione dal Portogallo, dei popoli delle ex colonie portoghesi una volta cessato il conflitto con l’intervento cubano per contrastare quello alimentato dal Sud-Africa. Con indifferenza abbiamo assistito alla trasformazione di movimenti di liberazione come lo Mpla, il Frelimo o il Paigc (per non parlare dello Zanu/Zapu di Mugabe) in partiti unici al servizio di una casta corrotta, quando non di un dittatore folle. Per onestà, ciascuno ha i suoi scheletri negli armadi: come l’Apra di Alan Garcia arrivato al potere in Perù nel 1985 o il partito neo-desturiano tunisino e il partito di Mubarak, membri dell’Internazionale Socialista fino alle rivolte popolari nord-africane del 2011. La primavera araba è diventata presto un incubo, come le vicende drammatiche dell’Egitto del 2013 o l’assassinio di leader sindacali in Tunisia evidenziano. Per non parlare della Libia, scambiata per una patria del socialismo, poi per una democrazia ritrovata, mentre si trattava di uno Stato a struttura tribale prima e dopo A comporre una unità di intenti a sinistra contribuirono la vittoria del socialista Salvador Allende con Unidad Popular nel 1970 e il suo assassinio nella Moneda in fiamme l’11 settembre del 1973. La protesta e la solidarietà furono un fatto di massa, e l’incontro dell’Europa con l’esilio cileno sarà uno dei fattori più dinamici del rinnovamento politico latino-americano, che cominciò a valorizzare la mobilitazione popolare di massa, sia politica che sindacale, piuttosto che la lotta armata di avanguardie rivoluzionarie, finita come prospettiva politica con il fallimento del Che in Bolivia (1967): la sopravvivenza della Farc in Colombia o dei senderisti in Perù sono state rese possibili soltanto grazie ad un’alleanza con il narco-traffico. Il mutamento politico-istituzionale in Sud America è stato uno degli aspetti più positivi e consolidati degli ultimi 20/25 anni, dal Brasile alla Bolivia, dall’Ecuador all’Uruguay, dall’Argentina al dimenticato Paraguay e al contraddittorio Venezuela. L’esilio cileno ha riguardato qualche decina di migliaia di persone che sono state accolte come un problema politico-umanitario da risolvere e non uno spettro da evocare: una lezione di cui la sinistra al governo – nei due casi con i socialisti di Craxi e i Ds di D’Alema – dovrebbe essere orgogliosa se paragonata con lo scandalo permanente di Lampedusa e dei Cie. Mentre per la solidarietà istituzionale e militante gli effetti sono stati positivi, il bilancio politico presenta luci ed ombre. Dall’esperienza cilena, invece di porre al centro il problema dei limiti esterni alla democrazia nazionale, il Pci attraverso Berlinguer trae la convinzione che le maggioranze del 50%+1 fossero deboli e non auspicabili, benché proprie di una democrazia dell’alternanza. Nacque la teoria e la pratica del compromesso storico, che approfondì il fossato tra socialisti e comunisti: una contrapposizione che non consentì loro di cogliere le potenzialità del crollo del sistema sovietico nel 1989. I condizionamenti reciproci tra Cile ed Italia non sono finiti: il Cile è stato uno dei pochi paesi a praticare le suggestioni di una formazione che superasse la frattura fra sinistra e centro cristiano democratico, anticipando l’ispirazione del Pd. Purtroppo per i cileni e per la sinistra l’esperienza è andata male anche sulla riva del Pacifico, con il ritorno nel 2010 della destra al potere con un personaggio che per molti aspetti ricorda Berlusconi; e il ritorno della sinistra, sia pure con un personaggio rispettabile come la Bachelet, si presenta complicato dalle divisioni sulla politica economica, con il centro-sinistra dipendente dai condizionamenti delle multinazionali. La poca attenzione dedicata al pensiero clerico-razzista di Sabino Arana, il fondatore ideologico dell’indipendentismo basco Spesso sono personali frustrazioni politiche che fanno apprezzare a sinistra movimenti di lotta armata anche quando hanno perso la ragione originaria: un esempio su tutti il sostegno al terrorismo di Eta anche dopo la caduta del franchismo. Mi ha sempre colpito il silenzio sulle esecuzioni con un colpo di pistola nella nuca dei socialisti Fernando Mugica Herzog nel Paese Basco o di Ernest Lluch in Catalogna, o la poca attenzione dedicata al pensiero clerico-razzista di Sabino Arana, il fondatore ideologico dell’indipendentismo basco. Si sceglievano i popoli o le minoranze etniche o linguistiche da difendere del tutto casualmente: per cui viva i baschi di Eta e i nord-irlandesi dell’Ira, e di contro una simpatia di nicchia per i kossovari di Ibrahim Rugova (per non parlare dell’ostilità per i sudtirolesi del comandante Klotz). La differenza non derivava da simpatie a corrente alternata, ma da considerazioni di opportunità: quindi quando si sente parlare soltanto di principi bisogna diffidare. I principi son tali se si estendono a tutto, ivi compresi i metodi di lotta: sul terrorismo e sui kamikaze non c’è giustificazione che dovrebbe tenere. I non violenti o pacifisti puri, cioè quelli sempre e comunque contro la violenza e la guerra, sono una rara minoranza.

Un peccato, in generale: ma anche una fortuna che non fossero maggioranza negli Stati Uniti alla vigilia della loro entrata in guerra a fianco delle democrazie europee contro il fascismo ed il nazismo. Nessuno che sia rimasto indifferente ai carri armati sovietici in Ungheria e Cecoslovacchia pensa di aver perso il diritto di protestare contro l’invasione dell’Iraq, il bombardamento della Serbia o l’intervento militare in Libia. Così va il mondo: e invece di condannare o giustificare, la sinistra dovrebbe finalmente confrontarsi, non dando nulla per implicito o scontato, e cominciare ad elaborare una propria visione globale del mondo piuttosto che un’impossibile politica estera al posto degli Stati o un improbabile internazionalismo ideologico. Di questo nuovo internazionalismo possibile ci sono due personaggi simbolici: Malala Yousafzai, eroina del diritto all’educazione delle donne contro l’integralismo religioso; e sempre dal Pakistan Iqbal Masih (Muridke, 1983 – Lahore, 16 aprile 1995), giovanissimo attivista sindacale contro lo sfruttamento dei fanciulli. Rappresentano infatti l’indissolubile legame tra diritti civili, diritti di libertà e diritti sociali a presidio della dignità umana, che è di ciascun individuo e di tutti come collettività Le basi materiali e soggettive ci sono ed hanno il loro inizio nel movimento no-global, nelle suggestioni dei Forum Social Mundial di Porto Alegre, e nelle riflessioni sulla crisi finanziaria, le sue origini e le vie d’uscita. Pur con tutti i limiti e le contraddizioni, sono state mobilitazioni non al servizio diretto o indiretto di uno Stato o di un blocco di Stati contro un altro. Ed ora vi è un pensiero critico sulle ricette d’austerità condiviso sui due lati dell’Atlantico, anche se politicamente minoritario. Si ponevano al centro la globalizzazione e i suoi effetti sul pianeta, sulle diversità di sviluppo, sulle diseguaglianze e sulle stesse condizioni di vita e di produzione. Nella visione di un mondo più giusto precedente la globalizzazione dell’economia e della finanza c’erano residui romantici, ma tuttavia si cominciava ad uscire da una visione internazionale in cui erano protagonisti gli Stati come potenze politico-militari invece che i popoli ed i movimenti: una intuizione feconda anticipata negli anni ’70 del XX secolo da Lelio Basso, con la Carta di Algeri del 1976 e la fondazione della Lega internazionale dei diritti dei popoli. Preservazione del pianeta, cioè speranza di vita per le generazioni future, terrorismo e contro-terrorismo globali, come governare la globalizzazione anche rispetto ad un mercato globale dell’economia e della finanza sono le sfide da affrontare e risolvere per una sinistra che voglia ritrovare un’identità e una possibilità di azione unitaria. Le condizioni vanno create con pazienza e senza forzature: basta paragonare il movimento per la pace e contro l’intervento in Iraq nel 2003, il suo pluralismo e trasversalità, con le reazioni all’intervento in Libia. Le visioni ideologiche e politico-partitiche del passato hanno funzionato da paraocchi, ma l’assenza di una visione alternativa della società e dei rapporti economici e sociali ha ridotto la sinistra ad accontentarsi di ruoli subordinati sia come antagonista che come ancella del pensiero neo-liberista. Una nuova società idealmente socialista, comunista, libertaria e ambientalista può ripartire soltanto se trova gli strumenti teorici per un’analisi del mondo contemporaneo ed un terreno sul quale incontrarsi e confrontarsi. Non si tratta di amore per astrazioni, ma di scelte concrete: per esempio nei rapporti con i partiti ecologisti, che sono al contempo alleati indispensabili e pericolosi concorrenti, con il prevalere al loro interno delle tendenze cosiddette realistiche o pragmatiche che rifiutano la distinzione tra destra e sinistra e un ruolo maggiore dello Stato nella società e soprattutto nella sfera economica. L’occasione è a portata di mano: le elezioni europee del 2014. Nella politica italiana è evidente il condizionamento europeo, specialmente per le politiche economiche, finanziarie e industriali conseguenti alla crisi del 2007. La chiave è in Europa, e con progetti e schieramenti europei ci si deve confrontare: da qui la scelta del socialismo europeo, malgrado i limiti politici ed organizzativi del Pse e l’assenza di un soggetto globale planetario, con la crisi dell’Internazionale Socialista. Per la sinistra il bivio è aperto: o si struttura sulla base delle famiglie europee, o dovrà cercare il campione che abbia più carisma di Berlusconi e di Grillo, ovvero di chi sarà espressione dell’antieuropeismo populista di destra o di sinistra: un modo di perdere la propria anima anche se dovesse vincere le elezioni.

Felice Besostri – pubblicato sul numero 3/4 (2014) di Mondoperaio