di Fulvio Papi |

In un momento come questo in cui la vita di ognuno è coinvolta nel caso crudele di una pericolosa pandemia, può apparire superfluo porre problemi che hanno a che vedere con la nostra identità storica, oppure, in modo più elementare, interrogarci su “chi siamo” o su chi, almeno idealmente, potremmo essere.

Se la prospettiva ha qualche possibilità di riuscita può forse richiamare nella nostra sensibilità un disegno del tempo che non soccomba del tutto alla naturale interpretazione dell’oggi, disastroso per l’esistenza, per l’identità, per la vita sociale, così come si sono costruite nella storia.

Per quanto mi riguarda farò riferimento a un articolo, molto ben fatto, che fu pubblicato sulla rivista dell’“Ordine dei giornalisti” in occasione del cinquantesimo anno della mia iscrizione come pubblicista all’Ordine medesimo. Il titolo, accanto al mio nome poneva due parole: “filosofo” e “socialista”.

Sul “filosofo” vi possono essere opinioni differenti ma il consenso sarebbe comune, sul “socialista” le perplessità sono certamente molto ampie e diffuse e, se non mi spiego, possono coinvolgere anche me stesso.

Per anticipare in breve il mio chiarimento dirò che la definizione di socialista nel mio caso va collocata tra due zeri, uno che riguarda il passato che nessuno può riprodurre, nemmeno come memoria, dato che la memoria non è un’impronta su una cera che può essere ritrovata sempre uguale (come voleva Aristotele), ma è piuttosto un continuo lavoro interpretativo e selettivo, che fa parte dei nostri vissuti nel tempo che ci è dato. 

Uno zero (o una “assenza”, con linguaggio filosofico) è dato dal mio passato di militante del Partito Socialista che, in ogni caso, sia rievocato o meno, rispetto al tempo e al senso attuale, è riassumibile in uno zero. Anche se è uno zero metaforico e non ha affatto il valore dello zero decisivo nel campo del calcolo matematico.

Allo zero allora bisognerebbe aggiungere “politico”, così che lo zero non debba infrangersi contro la crudele scogliera del nulla, come accade quando ingenui ma ambiziosi personaggi pensarono di poter resuscitare l’ombra del partito dissolto nella crisi della prima Repubblica.

Lo zero può cambiare di senso se decide di trasformarsi da politico a morale, ma qui più che l’orizzonte della polis vale quello della moralità, che si può leggere solo nell’esistenza del soggetto e nelle decisioni del comportamento, le quali stabiliscono la sua verità.

E lo “zero” rappresentato dalla povertà di una dimensione politica (il governo della polis secondo un bene condiviso), che possa aprirsi verso il futuro?

Anche in questo caso lo “zero” deve mostrare la sua metamorfosi e diventare lo specchio di un complesso e difficile lavoro intellettuale che, almeno nella galleria delle idee, mostri quali siano le condizioni per proporre nel nostro tempo la sua appropriata risoluzione socialista dei perfidi guai che ha provocato la forma neoliberista della riproduzione sociale, la quale si è ideologicamente incarnata in una materialistica “divina provvidenza”.

Il problema socialista non sarà quello di una inutile, banalmente aggressiva, negazione di tutto un processo storico, ma la sua trasformazione per cui possa prevalere (questo è l’ampio spettro di una azione) un sistema di finalità rispetto alla passiva e dominante adeguazione ai mezzi e ai valori che ne sono il riflesso sociale.

Ripeto: non bisogna valutare questa situazione con una collera intellettuale e sterile che vede l’opposizione totale dell’angelo rispetto al demonio, ma piuttosto come un difficilissimo problema che segna il secondo zero entro il quale sta il socialismo.

Ma anche qui lo zero non è assoluto. Il sapere non è un potere come diceva Bacon. Tuttavia il sapere è bene qualcosa che c’è, solo che esso deve essere interpretato come ogni altro oggetto che si dà alla nostra esperienza. Interpretare è costruire una cultura che nasce da una rielaborazione teorica, in grado di sintetizzare secondo le proprie finalità le conoscenze che derivano da settori del sapere che sono intellettualmente separati.

Economia, sociologia, geografia, antropologia, ecologia, demografia, psicologia, sono le discipline che devono necessariamente fare parte, con l’essenziale del loro sapere (tolte quindi da una loro separata oggettività), di una prospettiva “diagnostica”  il cui scopo è mostrare quali siano gli interventi “politici” collettivi e necessari, per fermare il degrado e ri-formare il mondo che storicamente è stato costruito sul mondo. Questo mi pare il compito che l’elaborazione della tradizione assegna a noi europei: la fine della sudditanza ad altre culture e ad altre finalità.

Trovare il proprio discorso è un modo debole ma, insieme, necessario per “essere” nel mondo attuale dei “soggetti”, e credo che un’idea di socialismo sia la rotta di questo possibile viaggio nel futuro.

Ricordo, memoria, storia da una parte, ideazione e progettazione difficile e coraggiosa dall’altra; passato e presente sono i due diversi zeri che circoscrivono la nostra prospettiva.

Noi, lo si sappia o no, siamo il “tra” l’uno e l’altro.

È sul destino che il “tra” saprà trovare con la memoria e il progetto, la libertà e la giustizia, che si gioca il futuro. C’era chi diceva: “Dio acceca quello che vuole perdere”.