di Felice Besostri |

Il modello socialdemocratico in Europa è in affanno e tra i partiti di sinistra per ora è competitivo solo il Labour. Ma il voto europeo è un’occasione per riflettere sulle alleanze e su come un metodo democratico possa servire per decidere sulle questioni controverse.

Se l’internazionalismo ci fosse ancora, candideremmo un cittadino dell’Unione europea non italiano.

La manifestazione di Milano del 2 marzo è andata molto bene, tutti dobbiamo esserne contenti. Ma il problema della sinistra italiana, se non vuol fare la fine di quella polacca non più rappresentata nel Sejm (la Camera bassa del Parlamento) dal 2015, è altro dall’unirsi sui temi dei diritti umani. Se fosse divisa anche su questo, sarebbe meglio immergersi nel Terzo settore e fare volontariato rinunciando ad un impegno politico. Le condizioni di partenza non sono delle migliori, alla luce dei risultati impietosi del 4 marzo 2018: la ricostruzione di una presenza politica significativa è chiaramente un impegno di lunga durata. Tutti dovremmo saperlo, ma questo aumenta l’angoscia, perché c’è un ceto politico, che non ha alternative personali alla permanenza nelle istituzioni o nelle vicinanze, godendo di una qualche indennità di rappresentanza.

La preservazione del gruppo dirigente è anche ragionevole, ma è chiaro che senza rinnovamento non si attirano nuove forze. Ci sono ragioni oggettive ed universali per le difficoltà della sinistra, che non è in buona salute in diverse parti del mondo, anche per l’affermarsi di stili di vita e modelli culturali di individualismo competitivo e consumista. In Europa il modello socialdemocratico, rappresentato dai partiti del Pse, è in affanno, con la crisi economica non sono più possibili politiche distributive della ricchezza e il welfare State. Della loro crisi non beneficiano se non molto marginalmente i partiti alla loro sinistra. Solo il laburismo di modello britannico è ancora competitivo in Gran Bretagna e nei Paesi del Commonwealth very british, Australia e Nuova Zelanda, tanto che il Canada è escluso. In Africa i partiti dell’indipendenza Fln (Fronte di liberazione nazionale Algeria), Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico), Mpla (Movimento popolare di liberazione dell’Angola), Paig, Zanu (Unione nazionale africana Zimbabwe), Zapu (Unione popolare africana dello Zimbabwe) e anche Anc (Congresso nazionale africano del Sudafrica) – queste sigle diranno qualcosa alla maggioranza dei lettori sotto i 30 anni? – per non parlare di chi ha preso il potere in Eritrea o in Etiopia non sono più quei puri campioni della liberazione dal colonialismo e dall’imperialismo. In America Latina sembra passata l’ondata di sinistra, che aveva travolto regimi militari. Il caudillismo influenza anche le esperienze più avanzate. Nel nostro democraticissimo Paese si vota ad ogni piè sospinto, ovvero non si vota più come nelle Province. Le leggi elettorali di Comuni e Regioni con premi di maggioranza alle coalizioni hanno nascosto la crisi, ma basta l’arrivo di una legge elettorale come l’europea, per mettere tutto in crisi. Le uniche alleanze le possono fare i partiti rappresentativi delle minoranze linguistiche, ma non sono mai state al centro di un’azione politica della sinistra, tranne che i tedeschi dell’Alto Adige per ragioni di potere e gli sloveni del Friuli Venezia Giulia per contingenza politica. Il Pd d’accordo con Fi ha introdotto la soglia alle europee apposta prima dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona e non se ne è mai pentito e neppure quelli che se ne sono usciti. Nessun sostegno alle azioni per farla dichiarare contraria ai trattati.

Nella XVII legislatura nessuna iniziativa per modificarla, anzi parlamentari europei del Pd hanno votato a favore della decisione n. 994/2018 per renderla obbligatoria nei grandi Paesi come Germania, Francia, Spagna, Polonia e il nostro. Non solo, nel Senato l’approvazione è passata senza battaglia anche da parte di Leu. La sinistra diventa a favore delle soglie, come incentivo ad unirsi? Con il trattato di Lisbona il Parlamento non rappresenta più «le popolazioni degli Stati» associati, ma direttamente «i cittadini Ue» (art. 10.2 del Trattato sull’Unione europea, Tue), quindi non ci possono essere soglie nazionali, facoltative e variabili, perché il voto non sarebbe più uguale, ma dipenderebbe dal Paese di residenza e con la carta di Nizza il diritto di voto e di eleggibilità è diventato un diritto fondamentale (art. 39 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Cdfue). Sarebbe come se eleggessimo la Camera dei deputati con soglie di accesso differenziate per regione in misura variabile e decisa da loro. Preoccupa che la sinistra si prepari alle elezioni europee non sapendo che «I cittadini sono direttamente rappresentati, a livello dell’Unione, nel Parlamento europeo» e, invece, che «Gli Stati membri sono rappresentati nel Consiglio europeo dai rispettivi capi di Stato o di governo e nel Consiglio dai rispettivi governi, a loro volta democraticamente responsabili dinanzi ai loro parlamenti nazionali o dinanzi ai loro cittadini» (art. 10.2 Tue).

Il 26 maggio non eleggiamo i deputati italiani nel Parlamento europeo, ma i rappresentanti dei cittadini Ue residenti in Italia. Ci fosse ancora un residuo di internazionalismo candideremmo un cittadino Ue non italiano da far votare da tutti i cittadini Ue residenti in Italia. Non succederà perché c’è il rischio che sia eletto lui e non un Pisapia nuovo entrante o un vecchio uscente. Un passo avanti si potrebbe fare se a sinistra si discutesse su cosa ci divide con lo scopo di superare le divisioni o, meglio, per trovare un metodo democratico per decidere le questioni controverse. Invece di dire “W Corbyn”, impariamo dal Labour: si cambia decisamente linea senza dividersi, perché contano iscritti e militanti, non dirigenti o signori delle tessere.

8 Marzo 2019 Pubblicato su LEFT

SUPERARE CIO’ CHE CI DIVIDE A SINISTRA

di Renato Costanzo Gatti

Aderisco all’invito di Felice Besostri di ricercare ciò che divide la sinistra per cercare di superare le divisioni o meglio trovare un metodo democratico per superarle.

            Da parte mia, il contributo che posso dare, riguarda una piattaforma economica da porre come base di discussione per pervenire ad una proposta unificante. La piattaforma parte da premesse pragmatiche che evidenziano le criticità che l’Europa si trova a dover affrontare:

  • Il dilagante capitalismo finanziario, che già ha portato al disastro del 2007, si pone obiettivamente in conflitto con il capitalismo produttivo facendo registrare un allontanamento dal fordismo che ha connotato il nostro sistema; il crescente spostamento di risorse dagli impieghi produttivi a quelli finanziari fanno mancare risorse per le imprese; i buy-back e la distribuzione di dividendi dimostrano questo dirottamento di risorse; i saldi del target 2 italiano che è positivo per l’export diventa negativo (400 miliardi) per le fughe di capitali; i derivati valgono 33 volte il Pil mondiale, le banche europee ne hanno in cassa per più di 300.000 miliardi di euro (48.000 la Deutsche bank, 40.000 la Barclays, 24.000 la Credit Suisse. Intesa e Unicredit ne posseggono rispettivamente 2.900 e 2.500 miliardi). La finanza è fuggita al controllo degli apprendisti stregoni e rischia di sommergerci in un cataclisma catastrofico, di cui, le crescenti disuguaglianze crescenti nella distribuzione dei redditi e delle ricchezze, altro non sono che indici inequivocabili dell’incombente lacerante avvento.

La contraddizione tra capitalismo produttivo e capitalismo finanziario, la insostenibilità di un sistema perverso aprono un varco al mondo del lavoro per far esplodere le contraddizioni e creare nuovi equilibri; lavoratori, professionisti, intellettuali, imprenditori al limite capitalisti schumpeteriani possono trovare interessi comuni tesi a rimettere la finanza al servizio dell’impresa.

  • Nel mondo produttivo la crescente importanza del fattore tecnologico, in atto già da anni con la digitalizzazione, la robotizzazione, l’intelligenza artificiale, i big data, in una parola l’economia della conoscenza, stanno costruendo un nuovo modo di produzione, completamente diverso da quello fin qui, tra mille attualizzazioni e innovazioni, conosciuto. Già oggi notiamo, in particolar modo nel nostro paese, l’insorgere di ostacoli alla crescita causati, tra le altre cause, dalla piena occupazione di quelle mansioni specializzate alle nuove tecniche produttive. L’avvento della tecnologia, che è un prodotto sociale, potrebbe realizzarsi, come sta già succedendo, attraverso l’appropriazione di quel prodotto sociale da parte del capitale; marxianamente il lavoro vivo si trasforma in capitale fisso, riproducendo in modo inusitato lo sfruttamento del capitale sull’uomo. L’aspetto rilevante è quello della liberazione dal lavoro, che tuttavia non corrisponde necessariamente alla liberazione del lavoro. Il processo non va ostacolato ma, ancora una volta, pone alle forze del lavoro l’urgenza di farsi carico di lottare per un modo di redistribuzione che pur coerente con il nuovo modo di produzione, si opponga al un neo-schiavismo che conseguirebbe con l’egemonia dei proprietari dei mezzi di produzione e tenda alla redistribuzione dei frutti dell’innovazione tecnologica ed alla socializzazione dei nuovi mezzi di produzione.
  • La divisione internazionale del lavoro, con la globalizzazione, sta conoscendo un sistema economico su base continentale rendendo obsoleta la forma stato nazionale. Il futuro dei nuovi assetti mondiali tra Usa, Cina, Russia, India sarebbe incompatibile con l’isolamento del nostro paese dal contesto europeo, cosa che si rende sempre più attuale con i movimenti in atto sulla scena mondiale (vedi Via della seta e reazioni Usa). Ciò detto rimane la piena consapevolezza che il modello europeo, così come disegnato, non può reggere a lungo senza affrontare: a) “l’esorbitante privilegio” tedesco che non si fa disponibile alla elaborazione di un meccanismo di redistribuzione dei surplus, b) una banca centrale il cui compito statutario sia limitato al controllo dell’inflazione, c) il tema di un budget europeo a disposizione di un governo autonomo promotore di una programmazione tesa alla convergenza dei fondamentali dei paesi aderenti e alla lotta anti spread e anti shock asimmetrici.
  • Da un punto di vista di teoria economica va rilevato che il pensiero di Hayek ha confermato che l’emissione incontrollata di moneta può portare, come ha portato, ai disastri del 2007, ma va pure rilevato come le politiche keynesiane degli Usa hanno permesso a quel paese di risalire velocemente (più velocemente dell’Europa) dal baratro in cui il paese era caduto appunto nel 2007. Ciò che deve essere chiaro alla sinistra è che i due economisti, pur su posizioni contrapposte, erano i più grandi fautori del liberismo: indiscriminato per Hayek, assistito per Keynes, entrambi erano avversi al socialismo: in modo parossistico Hayek, in modo più articolato Keynes. Il pensiero di sinistra, se vuole essere alternativo al capitalismo, se vuole essere socialista, deve opporsi al pensiero di Hayek, ma deve andare oltre Keynes. A ben vedere Keynes ha salvato e sta salvando il capitalismo molto meglio di quanto lo abbia fatto Hayek, è quindi il vero baluardo a difesa del capitalismo. E’ vero che il capitalismo con cui Keynes si confrontava era di tipo fordista e ignorava lo sviluppo della finanziarizzazione per cui potrebbe essere anche obsoleto, ma rimane comunque il più organico e intelligente sistema teorico a tutela del capitalismo. Questo per dire che il pensiero socialista non può identificarsi con quello keynesiano (anche se nella attualità politica può appoggiarlo come per esempio sul come opporsi all’austerity) ma deve andare oltre interpretando l’intervento dello stato non solo come un crocerossino che cura le malattie del capitalismo, ma come elemento programmatorio  sistemico che si pone come guida e gestore delle scelte strategiche del paese.

Fatte le premesse di cui sopra, indicherei alcuni punti, conseguenti ad esse, su cui fondare un programma per le prossime europee:

  1. Lancio di una politica industriale europea (un piano Juncker al quadrato) finanziata con titoli pubblici europei per far convergere i fondamentali dei vari paesi, prevenire gli shock asimmetrici. Ciò naturalmente comporta una nuova governance europea basata su un budget autonomo di un governo autonomo che risponde ad un Parlamento sempre più organo deliberante europeo.
  2. Revisione dello statuto della BCE che si avvicini di più ai compiti della Fed che non a quelli attuali ricopiati dal modello Bundesbank. Tra i compiti della BCE andrebbe posto quello dell’azzeramento degli spreads.
  3. Affrontare finalmente la necessità di un meccanismo di redistribuzione dei surplus (GSRM), che guardi più al modello keynesiano di Bretton Woods che non al puro mercantilismo tedesco.
  4. Introdurre la “golden rule” di Delors, ossia lo scomputo dal calcolo del deficit della spesa per investimenti. Va bene perseguire il pareggio per le spese correnti ma gli investimenti vanno gestiti in modo autonomo con criteri che privilegino quelli a più alto moltiplicatore.

Potrebbe andare benissimo anche l’insieme delle nostre proposte al tavolo di Rimini.