UN MIO COMMENTO ALL’ARTICOLO IN OGGETTO

Per la precisione le sinistre erano 5, sotto altra veste si è ripresentato Ingroia che con Rivoluzione Civile si era presentato nel 2013 ottenendo 765.189 voti e il 2,25%, un risultato che avrebbe esaltato Potere al Popolo, che non ha neppure raccolto il 2, 23% perso dalla Lista del Popolo per la Costituzione fermata allo 0,02%. Il PD è un partito, che non si definisce di sinistra, fin dal tempo della sua formazione (Intervista di Veltroni al Pais del 2007) e che ha riscoperto il centro-sinistra soltanto in funzione polemica contro LeU, che lo avrebbe diviso e favorito la destra, con la quale aveva concordato la legge elettorale, che si è rivelata poi suicida.

Resta un mistero la stessa adesione al PSE, che neppure fu tentata da Bersani e da Sinistra e Libertà quando avrebbe potuto giocare in anticipo la carta europea. Mi sono convinto, che per Renzi si trattava di anticipare nel febbraio 2014 lo sperato successo alle elezioni europee. Senza l’adesione al PSE sarebbe rimasto fuori dalle cariche che contano nella UE, rigorosamente spartite tra PPE e PSE. Aver puntato sulla politicamente irrilevante Mogherini come prima Vicepresidente della Commissione Europea rientrava nello stile renziano del rinnovamento e soprattutto rottamare definitivamente Massimo D’Alema, che pure avrebbe contato su un più forte prestigio personale.

Tuttavia era il peso dell’Italia sullo scenario internazionale a renderla poco influente, cioè fino a quando il suo debito pubblico avrebbe superato i parametri di Maastricht. Tutto ciò appartiene alla sovrastruttura politica e quindi è da apprezzare l’articolo, quando rinviene le cause della debolezza della sinistra nei mutamenti della struttura produttiva e nei mutamenti del capitalismo: la supremazia della finanza rende i partiti espressione dei lavoratori non interessanti come partner per la tranquillità sociale per contenere le pretese sindacali e una maggiore partecipazione del lavoro dipendente agli aumenti di produttività. La presenza di un esercito di riserva della forza lavoro costituita da migranti senza diritti e le delocalizzazioni produttive erano più efficaci e meno costose del compromesso socialdemocratico.

I partiti che avevano beneficiato del compromesso, invece, di difendere gli interessi del loro elettorato hanno creduto nel progresso lineare e crescente apparentemente garantito dai successi della finanza e di fronte alla crisi hanno accettato la logica dell’austerità e dello smantellamento del welfare, lasciando al populismo di destra la sua difesa, con la ricetta più semplice del mondo: bastava garantirlo solo ai cittadini nazionali escludendo gli altri, gli stranieri, spesso in condizioni di precarietà (irregolari o clandestini e quindi privi di ogni capacità di resistenza). Nella debolezza della sinistra pesa anche la sua cultura politica, che su questioni essenziali non ha linee guida. La mondializzazione comporta una scelta tra una politica internazionalista ed una nazionalista.La sinistra non ha scelto e quel che è più tragico è che la divisione è trasversale alla collocazione nello spettro politico: anzi i sovranisti sembrano prevalere nelle formazioni più a sinistra: esemplare a questo proposito è l’adesione all’indipendentismo catalano, benché la sua matrice nazionalista e borghese sia da sempre stata chiara.

Felice C. Besostri

 

Italia anno zero: quattro sinistre per una débâcle annunciata

di Maurizio Fantoni Minnella

Tre sinistre scampate al diluvio delle ideologie, e altresì e fortemente provate da una crisi profonda che ha origine negli anni ottanta del secolo passato, da quella famosa marcia dei 40.000 della Fiat (1980) e in una più radicale trasformazione del lavoro (anche attraverso la delocalizzazione produttiva) e dei rapporti di forza tra proprietà e classe lavoratrice che oggi, per comodità, chiamiamo globalizzazione, ma che in Europa si sforzano di definire come mondializzazione, si presentano, ora, divise all’appuntamento elettorale del 4 marzo, dopo ben quattro governi non eletti, tuttavia consapevoli del fatto che le parole d’ordine che oggi faranno breccia sulle grandi masse popolari, al nord come al sud, non sono quelle appartenute per circa un secolo alla grande tradizione culturale e politica della sinistra. Si configurano, piuttosto, come richiami a un’idea di ordine, fatto di sicurezza e di paure collettive, egoismo sociale e xenofobia che pensavamo di avere lasciato alle spalle ormai da parecchi decenni, e che, al contrario, riappaiono nella loro paradossale attualità nelle forme di un populismo reazionario per niente nuovo, che insistere nel definire come “antipolitico”, non può che risultare fuorviante. Si tratta, invece, di una politica tendente alla democrazia diretta, che si richiama al concetto di sovranità popolare, il cui fine è semplicemente il controllo totale delle masse orfani della propria classe d’appartenenza.

Crediamo sia proprio questo il frutto malato della crisi dell’ideologia di sinistra (comunista, socialista e riformista) in Italia ma anche nel resto dell’Europa, e non delle ideologie in senso più generale, come viene sempre più spesso contrabbandato dalla pubblicistica, anche quella più avanzata. Il fatto che, ad esempio, il Movimento 5 Stelle abbia adottato la definizione di post-ideologico, non significa affatto che in quel movimento-partito non persistano connotazioni che si richiamino a singoli elementi squisitamente ideologici. Ma se la perdita della centralità, o se si preferisce, della bussola politica e ora anche culturale (con la sopravvenuta crisi della figura e del ruolo dell’intellettuale, di cui spesso si discute sui grandi giornali quotidiani), è a monte, da ricercare nella fragorosa caduta del sistema di valori del socialismo reale mondiale, oggi si esprime prevalentemente nel ridimensionamento,  se non addirittura nella scomparsa effettiva della classe operaia, dei suoi valori, diritti e destini, e altresì della pratica della militanza politica territoriale (oggi riproposta, invece, con imbarazzante evidenza, dall’estrema destra che trova in un Matteo Salvini  un “valido” leader!). E’ in tutto questo che andrebbero ricercate le cause principali di un’ormai cronica empasse a cui ciascuna formazione politica collocabile a sinistra, ha reagito proponendosi come un’alternativa possibile.

Partiamo, dunque, dal Partito Democratico, risultante di una metamorfosi “americana” (si pensi al sogno veltroniano del bipartitismo), di un grande partito di massa che ha progressivamente rinunciato, in nome di un progetto  riformista ambiguo e confuso, più spesso in antitesi con gli stessi valori della sinistra, alla propria vocazione originaria, quella di salvaguardare i diritti dei ceti più deboli, finendo per trasformarsi, anticipando così la proprio recente sconfitta, nel “partito del capo”.

Il tentativo legittimo e necessario di creare una nuova formazione a sinistra (che proprio nuova non è), comprendente Sinistra italiana e  le due anime transfughe del Partito Democratico, quella di Massimo D’Alema e quella di Pippo Civati, capace di rilanciare una sfida politica sul terreno dei diritti e del lavoro, si è infranto nell’indecisione, nella debolezza del leader e, soprattutto, in una mancata presa di distanza da taluni errori pregressi del centro-sinistra. Un’altra sinistra, invece, che in passato ebbe anche una discreta rappresentanza parlamentare,  ma dai connotati radicali e dunque, identitaria nel riaffermare la propria origine comunista (a partire dalla riproposizione del simbolo della falce e martello), si affida incautamente alla sigla tanto generica quanto ambigua di “Potere al popolo” (guarda caso è proprio la destra, oggi come ieri, a parlare di popolo!), concepita da un centro sociale napoletano Je so’ pazzo (con riferimento a una nota canzone di Pino Daniele che farebbe riferimento a un nuovo Masaniello…), generando così una contraddittoria miscela di partitismo da una parte e di movimentismo dall’altra. Infine, la sinistra che nel simbolo elettorale si definisce rivoluzionaria (tra cui quella trotzkista del genovese Marco Ferrando), ostinatamente e orgogliosamente a sinistra della sinistra, che ormai si vorrebbe fuori dalla Storia, piccole realtà politiche resistenti che, nonostante la proverbiale inconsistenza numerica e la crescente malattia del cosiddetto voto utile, ci ricordano, forse, che, al di là delle singole appartenenze, esistono ancora in circolazione una coerenza e un’idealità politiche.

Tuttavia sappiamo che ciò non basta e mai basterà ad arginare l’idea, oggi purtroppo vincente, secondo la quale, l’affidarsi a un capo e al suo carisma mediatico, sia la sola via, il solo mezzo per il totale controllo delle masse popolari. Ed è contro questa politica “imperiale”, anzi, da basso impero, che la sinistra dovrà, in un futuro che è già presente, ritrovare con forza la propria ragion d’essere.