«Le aree metropolitane del Nord-ovest (Milano, Torino, Genova), hanno esercitato in passato un ruolo di guida e di traino dello sviluppo italiano, sia per la massa di risorse che hanno coagulato sia per la loro visibilità. È innegabile, tuttavia, che da tempo hanno smesso di svolgere questa funzione. Più in generale, nel corso degli ultimi anni si è fortemente attenuata l’attenzione politica per i temi della società settentrionale. Sembra quasi che il declino della Lega Nord — il soggetto che aveva impresso valenza politica alla "questione settentrionale" e avanzato la proposta federalista – abbia sopito l’interesse per la specificità del Nord nell’ambito di una visione della società italiana. In realtà, la questione settentrionale è stata oscurata, in larga misura, per effetto delle politiche di riequilibrio finanziario, che posseggono un’inevitabile caratterizzazione centralistica. Ciò tuttavia ha prodotto la conseguenza di depotenziare la capacità di elaborare una rappresentazione dello sviluppo italiano, che non può evidentemente fare a meno di attribuire un risalto particolare alla funzione del Nord. Del resto, le elezioni amministrative che si sono svolte nella primavera di quest’anno non hanno condotto a una rivitalizzazione delle tematiche dello sviluppo locale, le quali anzi hanno subito a loro volta un ridimensionamento. Pensiamo, per esempio, al caso di Genova, che ha assistito a un cambiamento importante nella compagine che amministra la città. senza peraltro che stato identificato un nuovo asse di sviluppo per il capoluogo ligure e il territorio che influenza. Anche Milano, del resto, la città del Nord che ha da sempre le maggiori dotazioni economiche e strutturali e la rete più fitta di collegamenti internazionali, non è riuscita a esprimere una leadership del Nord Italia come nei suoi momenti migliori.
Lo prova l’offuscamento di un’iniziativa come I ‘Expo 2015, via via svuotata non soltanto di significato, ma anche di quel valore di riferimento che all’inizio era parso dovesse avere. Quanto a Torino, è forse l’area metropolitana che sta pagando il prezzo più alto alla crisi, con una gelata che sta frenando la sua evoluzione in un sistema polisettoriale capace di operare una graduale diversificazione rispetto al monocromatismo industriale di un tempo. Difficilmente i tre grandi poli urbani di Milano, Torino e Genova sapranno ritrovare il sentiero dello sviluppo se guarderanno soltanto all’interno dei propri confini. Nemmeno Milano, pur con la concentrazione di relazioni e di risorse che la contraddistingue, riuscirà a proporsi come un vettore di crescita, se farà perno soltanto su di sé. Nella realtà composita, policentrica e sempre più mobile che connota la rete delle città contemporanee, i nostri sistemi metropolitani rischiano di perdere posizioni, se si illuderanno di poter muovere in primo luogo da se stessi, senza far leva invece su un ‘interazione più ravvicinata e stringente. Nello stesso tempo, non si può pensare a una riedizione degli schemi di cooperazione fra le città evocati a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Diciamo la verità: "Mi-To", l’alleanza fra Milano e Torino, non ha dato fin qui risultati significativi. E il tentativo di integrare Genova in questa forma di collaborazione si smonta già dall’acronimo: "Ge-Mi-To" suona francamente inquietante… Non è questa, dunque, la strada maestra. Anche perché esclude, piuttosto di includere: i territori provinciali, persino quelli dislocati nelle aree limitrofe, soffrono del sospetto di essere tagliati fuori da un dialogo che li sorvola, accentrandosi soltanto sulle città di dimensioni più estese. È ora di alzare il tiro. Le aree metropolitane devono lavorare insieme a uno schema di cooperazione in grado di affrontare alcuni nodi irrisolti del passato. Per fare questo, esse dovrebbero quanto meno porsi nella logica di costituire una piattaforma per il Nord. Operare cioè nella logica di una filiera d’integrazione che non può avere né limiti né confini prestabiliti, ma che si proponga come una geografia in costruzione, un sistema territoriale aperto. Occorre saper andare oltre la vecchia divisione fra Nord Ovest e Nord Est. Una distinzione che sta diventando obsoleta perché questi due universi territoriali (una volta così ben ravvisabili nei loro caratteri di fondo) da più di un decennio stanno subendo un processo di avvicinamento. Così, un nuovo ragionamento sul Nord che parta dai poli urbani non può non misurarsi con Verona, oltre che con Brescia.
Si tratta di progettare una mappa in cui sia ridisegnata una rete di interdipendenze funzionali. Che si proponga di accelerare le tendenze all’integrazione con coerenti scelte amministrative. Che miri a mettere in rilievo quanto si può mettere in comune con vantaggio reciproco, in modo da costituire una massa critica di fattori per lo sviluppo tale da risultare di per sé un elemento incentivante, di vantaggio competitivo. È chiaro che un simile obiettivo richiede la capacità di compiere uno scarto rispetto a una storia amministrativa che sollecita innovazioni risolute: non bastano più, infatti, le "narrazioni pubbliche locali" (come scrive acutamente il sindaco di Forlì, Roberto Balzani, nel suo bel saggio Cinque anni di solitudine. Memorie inutili di un sindaco, Il Mulino 2012)a sorreggere piani di sviluppo locali che si sono fatti troppo esili, dopo lo sconquasso della crisi. I sindaci dovrebbero assumere consapevolmente il compito di una nuova classe dirigente che guarda al Nord come al principale motore di sviluppo dell’Italia. Dovrebbero raccogliere su di sé la missione incompiuta e tradita di un federalismo che è stato solo ideologia e che oggi, con la propria rimozione dal mercato della politica, rischia di veder rimosse anche le istanze migliori delle autonomie locali. Esistono nodi e questioni che possono essere affrontati soltanto in questo modo, con la lungimiranza di politiche orientate a creare opportunità di sistema. Pensiamo per esempio alla logistica, su cui l’Italia registra un ritardo considerevole rispetto ai maggiori partner europei. L’agenda delle infrastrutture costituisce la cornice entro cui far crescere capacità, qualità e livello degli operatori. In altri termini, va riattivata una logica di complementarietà fra l’investimento infrastrutturale pubblico e l’iniziativa imprenditoriale privata, privilegiando le opere che tendono in questa direzione e corrispondono a criteri di sistema per tutto il territorio settentrionale. Il presente non permette più a ogni area di perseguire opere pubbliche che obbediscano in primo luogo a sollecitazioni locali e non muovano invece dall’identificazione di convenienze condivise. Inoltre, esiste già un primo traguardo a cui rapportarsi, il 2016, quando entrerà in funzione il nuovo traforo del S. Gottardo. Altrettanto strategico per il Nord è il versante delle public utilities. Fin qui ci si è orientati verso una strategia di fusioni, puntando a elevare le dimensioni d’impresa, con l’ipotesi di qualche proiezione internazionale. Il disegno di coesione territoriale che si è evocato suggerisce di prendere in esame anche un’altra via, che miri a una politica di federazione e alleanze fra le società locali di servizio, senza sfociare necessariamente in vere e proprie fusioni, ma considerandole piuttosto come un arcipelago unitario. Questo modello "alla tedesca" consentirebbe, da un lato, di mantenere il bacino territoriale da cui queste imprese traggono la loro specificità e, dall’altro, di sospingerle a uscire dal loro alveo locale. Il contributo che una piattaforma per lo sviluppo del Nord, sostenuta dalla forza di autonomie locali rinnovate, potrebbe dare per il rilancio dell’Italia appare di primo piano. Non da ultimo perché, riattivando un circuito virtuoso tra politica e amministrazione, restituirebbe smalto e valore alla partecipazione civile.
Giuseppe Berta – Gruppo di Volpedo
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