di Concetta Vecchio |

L’ex ministro socialista: “Il Parlamento è incontrollabile. Servirebbe prima del voto una grande discussione politica, altrimenti si elegge una figura debole. Mattarella ha messo Draghi nello stesso fascio degli altri premier”

Rino Formica, l’ex ministro socialista della Prima Repubblica, tra un mese compirà 95 anni.

Ha capito come finirà l’elezione al Quirinale?

“Difficile dirlo. Per la prima volta un Parlamento decomposto dovrà produrre un composto. Non ho mai visto una situazione più terremotata di adesso. Forse nel 1992 c’era un clima simile”.

Quando si elesse Scalfaro?

“Sì, era appena scoppiata Tangentopoli. Il mese prima le elezioni politiche avevano mandato all’aria il sistema che vigeva dal Dopoguerra. Era arrivata la Lega. Ricordo che il seggio venne aperto il 13 maggio, sei giorni dopo, di fronte allo stallo, Gianfranco Miglio, l’ideologo di Umberto Bossi, si alzò e propose un’assemblea costituente. Né Scalfaro, che presiedeva la Camera, né Spadolini, presidente del Senato, gli tolsero la parola”.

Perché cita questo episodio?

“Perché anche adesso, sin da subito, occorrerebbe una discussione politica preliminare, soprattutto nel Paese. Servirebbe un dibattito animato dalla stampa, più che retroscena e gossip sui segreti delle trattative”.

Cosa teme esattamente?

“Vede, il Parlamento è incontrollabile. Un terzo sa che è in soprannumero, vista la riduzione dei seggi. Un terzo è consapevole che non sarà ricandidato. E un terzo è espressione di capi che non contano più nulla. Potremmo trovarci così dinanzi a mille volontà diverse”.

Quindi cosa rischiamo?

“Una tombola”.

L’elezione non è gestita?

“La discussione preliminare servirebbe a capire se esistono almeno cinque grandi elettori che pongono il problema di trovare il candidato che sia più in sintonia con il Paese, adesso e nei prossimi sette anni. Per farlo occorre individuare un comun denominatore che porti a una figura di garanzia”.

E se ciò non avvenisse, si rischierebbe un Capo dello Stato di parte?

 “Peggio. Un signor Nessuno facile da detronizzare”.

Teme un Presidente debole?

“Non autorevole. È vero che il populismo è stato sconfitto, ma gli attori sono ancora tutti lì”.

Per chi fa il tifo?

“Ma io non voto. Non è un’elezione popolare. Però bisogna che il Paese sappia prima quale è l’orientamento maggioritario. Invece non si sa. È tutto confuso. La verità è che i partiti non controllano il seggio elettorale. E il voto segreto potrebbe favorire l’ascesa  di un mediocre”.

È un fatto nuovo?

“Il fatto nuovo è che si tengono occultati i candidati, perché nessuno ha la forza d’imporsi, neanche nel proprio partito”.

Questo non era così anche ai suoi tempi?

“No, che Fanfani, Moro, Andreotti, La Malfa, Spadolini, ambissero al Colle si sapeva. Era notorio. E non era scandaloso. Stavolta non si sa”.

Berlusconi l’ha fatto capire chiaramente.

“Ma lui sta usando la candidatura come elemento di sopravvivenza: “Gli altri mi ignorano e io mi candido”. In questo modo conforta se stesso”.

Pensa che non avrà i numeri?

“Non lo vogliono né Salvini né Meloni, a ben vedere. Lo sa anche lui. Perciò si accontenterebbe di avere trecento voti, sarebbe già una bella soddisfazione dinanzi all’opinione pubblica, e poi tornerebbe ad occuparsi delle sue ville”.

Draghi non sarebbe il candidato più autorevole per il Quirinale?

“Temo che sia inadatto”.

Perché mai?

“In lui prevale la cultura del banchiere. I banchieri non hanno una visione di lungo periodo, sono attenti alla convenienza di quel che il mondo offre in quel momento”.

Non sarebbe come Ciampi nel ’99?

“Ciampi era un uomo di cui si conosceva il pensiero politico. Prima della Banca d’Italia, aveva partecipato attivamente non solo alla Resistenza, ma alla fondazione del Partito d’Azione. Di Draghi non sappiamo nemmeno per chi vota. Il modo con cui tutela il suo segreto è allo stesso tempo una dimostrazione di debolezza e di potenza”.

In un’intervista Draghi si definì un liberal socialista.

“Non basta per rispondere ai due criteri indicati nel messaggio di fine anno da Sergio Mattarella. Non ha una cultura di appartenenza da cui spogliarsi, da cui discende l’incapacità di poter fare da garante delle istituzioni. La politica è una cosa maledettamente seria, ed è figlia di culture, visioni, pratiche”.

Se Draghi esce di scena l’Italia non rischia un tracollo?

“Un Paese di 60milioni di abitanti che può vantare un solo uomo è finito. E’ come se al casinò si puntasse su un unico numero. Se poi non esce che si fa?”

È molto pessimista.

“Propongo un salto generazionale. Bisogna avere il coraggio di dire che un ciclo si è chiuso. E chi esce di scena vada a fare un corso di recitazione o scriva un libro”.

Lei perché non ha mai voluto scrivere la sua biografia?

“Un politico i libri li deve fare scrivere agli altri, facendo parlare i fatti”.

Come valuta il settennato di Mattarella?

“Buono. Il suo punto debole è che, da presidente del Csm, non ha saputo impedire la decadenza del mondo della giustizia”.

Le è piaciuto anche l’ultimo discorso?

“Ha messo in guardia dalle tendenze distruttive. Ha detto che i giovani sono il presente, non il futuro. Auspica anche lui la fine della gerontocrazia”.

È stato freddo con Draghi?

“L’ha messo in un fascio con gli altri. È come se l’avesse licenziato: “Finisci la tua missione, e poi fatti da parte”.

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