«Livorno 19 febbraio 2011 Sala delle Corallaie

Convegno “Dalla scissione comunista all’Unione per il Socialismo nel XXI° secolo”

Relazione introduttiva di Felice Besostri,

portavoce del gruppo di Volpedo, della DN del PSI

Il compito, che mi è stato assegnato, di introdurre il tema del Convegno, mi affida una particolare responsabilità, che devo affrontare con senso di misura e di modestia, perché se passi saranno fatti in avanti sulla via dell’Unione per il Socialismo nel XXI° secolo, sarà grazie ad una riflessione collettiva e plurale, che nasca da esperienze e azioni concrete in comune (del tipo della raccolta firme contro la privatizzazione del servizio idrico potabile), più che dall’intuizione di uno dei tanti impegnati nel processo di ricostruzione e rinnovamento della e nella sinistra italiana o dalla comparsa di un nuovo leader carismatico e unificatore, che pur  sarebbe benvenuto, se fosse conscio dei suoi limiti soggettivi e oggettivi, derivanti dall’assenza di una elaborazione di gruppi dirigenti in un contesto di partecipazione dal basso, sia orizzontale che verticale.

Penso che sia opportuno partire dal titolo del convegno, perché non a caso si sono usate delle parole piuttosto che altre. L’occasione è il 90° anniversario della scissione comunista, consumata proprio qui a Livorno, la scissione maggiore del movimento operaio e socialista italiano per le sue ripercussioni nel tempo, non certo la prima e neppure l’ultima. Chi ha promosso il convegno è un insieme di circoli e associazioni, i cui esponenti e militanti fanno parte di diversi partiti politici (PD, PSI e SEL principalmente e in ordine alfabetico, ma anche di formazioni aderenti alla Federazione della Sinistra, come Socialismo 2000) ovvero di nessun partito o con impegno soltanto sindacale o nel sociale. La promotrice, cui va riconosciuto il merito principale, è la Lega dei Socialisti di Livorno, cui si sono associati il Gruppo di Volpedo, rete di circoli socialisti e libertari del Nord-ovest d’Italia, operante da 4 anni, e il più giovane Network per il Socialismo europeo, una rete di compagni e compagne e di associazioni con vocazione nazionale. Il richiamo all’aggettivo socialista o al sostantivo socialismo indica un progetto per il futuro e non una provenienza dal passato: dove – e in che forme – si vorrà o si potrà andare insieme dovrebbe è più importante delle diverse provenienze. Unione per il Socialismo non coincide con Unità socialista, espressione che è stata evitata per due ragioni: una nazionale e l’altra storica internazionale. Unità socialista è stato un progetto del PSI sotto la guida di Craxi che aspirava a provocare un riequilibrio nei rapporti di forza tra socialisti e comunisti in Italia (per ridursi in tempi più recenti in un molto più modesto tentativo di superare la frammentazione della diaspora socialista). Nel resto d’Europa, invece, richiama troppo le unificazioni forzate tra socialisti e comunisti nei paesi dell’Europa centrale e orientale occupati dall’Armata Rossa nei primi anni del Secondo dopoguerra nel XX° secolo. Parafrasando Madame Roland de la Platière si potrebbe esclamare: “Unità quanti delitti in tuo nome!”. Partito di Unità Socialista di Germania (Sozialistische Einheitspartei Deutschland – SED) e Partito Operaio Unificato Polacco (Polska Zjednoczona Partia Robotnicza – PZPR) sono la dimostrazione che i nomi non bastano per connotare una realtà politica e come possa essere tradita l’aspirazione all’unità. Unione definisce più un processo in movimento di Unità, che rappresenta uno stato d’arrivo. Socialismo nel XXI° secolo, piuttosto che del XXI° secolo, lo potremmo liquidare come un vezzo, un’idea di continuità di valori ideali, un voler riallacciarsi all’inizio della costruzione nei singoli stati e a livello internazionale del movimento operaio e socialista, come per ripartire da capo, un nuovo inizio, piuttosto che una revisione demolitrice per essere all’altezza dei nuovi tempi, per essere moderni. La critica a capitalismo è stata troppo rapidamente liquidata come un “arcaismo” (Rocard) o “old” rispetto a un “new” (Giddens). Sia chiaro che siamo ben consci che non si possono ripetere slogan del secolo scorso, come giaculatorie. Lo sviluppo delle forze materiali e la  ineguale distribuzione della ricchezza con punte intollerabili, la crescita globale dei mercati finanziari e delle telecomunicazioni in tutte le sue forme tecnologiche, l’equilibrio ambientale da preservare e l’esplosione demografica da controllare, per nominare soltanto alcuni dei problemi, richiedono risposte nuove. Tuttavia, se non si ha una bussola per orientarsi, cioè se non si ha una direzione di marcia, fosse anche un’utopia, non si troverà la strada anche se disponessimo dei più sofisticati navigatori satellitari. Per questo si parla di Socialismo e non di Sinistra. I due termini non coincidono, pensiamo all’apporto del pensiero liberal-democratico, che pure ha connotato scelte tipicamente socialdemocratiche come il welfare state a cominciare dal Servizio Sanitario Nazionale – NHS di Beveridge o le politiche economiche keynesiane. Il socialismo si colloca tra le dottrine politiche di sinistra, anche quando le prassi dei partiti socialisti democratici non sono definibili progressiste. La parola Sinistra indica una collocazione nello spettro politico, piuttosto che un’idea di società, che si voglia costruire in sostituzione di quella esistente. Non basta a definire programmi e a progettare azioni politiche di cambiamento e, diciamolo con franchezza, può essere un fattore di ambiguità. Ai tempi della Seconda Internazionale c’era un’idea comune di società socialista che accomunava gradualisti e rivoluzionari: una società senza classi di persone libere ed eguali e con la proprietà pubblica dei (principali) mezzi di produzione. Turati proprio nel celebre discorso di Livorno, che molti vorrebbero essere lo spartiacque definitivo tra socialismo (democratico) e comunismo (rivoluzionario), dopo essersi riconosciuto sia nel comunismo classico di Marx ed Engels (che per lui era il cervello destro e non il braccio destro di Marx) che in quello ideologico non ebbe problemi a dire: “Compagni, questo comunismo, in un senso o nell’altro, questo comunismo che è il socialismo, può anche espellermi dalle file di un Partito, ma non mi espellerà mai da sé stesso!” o che “Noi siamo figli del Manifesto del 1848”, cioè dei comunisti. Turati rivendicò alla sua storia e alla sua azione di aver “portato nella lotta proletaria per la prima volta in Italia – … – la suprema finalità del socialismo: la conquista del potere da parte del proletariato costituito in Partito indipendente di classe …”, una teoria non molto distante da quella leninista, se non per il carattere di massa rispetto a quella dell’avanguardia cosciente.[1]

La scissione comunista indebolì l’opposizione democratica di fronte al fascismo, perché il PSI unito ne poteva essere il perno, ma si deve ammettere che il pericolo fascista non era nemmeno la prima preoccupazione di Turati, tanto era sottovalutato sia nei socialisti, che nei comunisti, i quali erano addirittura convinti che fosse matura la rivoluzione in Europa. La rottura in Italia e nel resto del continente non avvenne sul fine ultimo, ma sulla conquista del potere e sui metodi per mantenerlo una volta conquistato: sul punto Turati è stato profetico sulle degenerazioni conseguenti all’uso della violenza. In tempi più recenti la stessa riflessione è stata fatta dal compagno Bertinotti A distanza di anni due comunisti diedero del Congresso di Livorno interpretazioni divergenti dal “Turati aveva ragione” di Terracini all’“errore provvidenziale” di Amendola.

La divisione tra socialisti e comunisti ha caratterizzato il XX° secolo, ed è stata importante fino all’esistenza di un campo socialista al capo del quale stava l’U.R.S.S., come Stato, più ancora che il P.C.U.S., come partito, ma ha nel complesso perso progressivamente di importanza, sia per le divisioni interne al blocco comunista (modello maoista cinese), che per la disgregazione del blocco sovietico e l’indebolimento dei partiti comunisti più forti, in competizione con il Partito Socialista, in Francia, Spagna, Portogallo e Grecia. Resta l’eccezione italiana, cioè dell’unica nazione europea nella quale la divisione tra socialisti e comunisti degli anni ’20 proietta tuttora la sua ombra e assume rilievo politico, malgrado le vicende che hanno travolto i partiti eredi delle due tradizioni e malgrado che il troncone più grosso di ascendenza comunista si chiami genericamente democratico e non si definisca di sinistra.

Silone, che pure aveva drammaticamente rotto, pagando un grosso prezzo personale, con il movimento comunista internazionale, aveva colto l’inattualità della divisione tra comunisti e socialisti, già nel 1944. Per Silone, allora Direttore dell’Avvenire dei Lavoratori di Zurigo, quattro erano le questioni fondamentali sulle quali si era consumata la scissione:

“a) difesa nazionale o disfattismo;

b) partecipazione ministeriale o opposizione sistematica;

c) legalità o insurrezione;

d) dittatura o democrazia.

Ora, nessuno di questi quattro motivi sono ancora oggi attivi nel dialogo politico tra socialisti e comunisti. Se una differenziazione organizzativa persiste ancora tra socialisti e comunisti non è certo per divergenze attuali su qualcuno di questi quattro punti fondamentali”[2]. La guerra fredda e la cortina di ferro crearono altre divisioni, che Silone non poteva prevedere.

Un superamento delle divisioni tra socialisti e comunisti risolverebbe solo in parte i problemi di una sinistra in grado di proporsi alla guida del Paese con suoi programmi e leader. Edgar Morin, sociologo e filosofo francese ha intitolato un suo famoso saggio del 2010 «Ma gauche» (La mia sinistra) e non «La gauche» (LA sinistra), perché «J’ai toujours répugné à ce LA unificateur qui occulte les différences, les oppositions, et les conflits. Car la gauche est une notion complexe, dans le sens où ce terme comporte en lui unité, concurrences et antagonisms.[3]». Un pensiero socialista nel XXI° secolo non può ignorare gli apporti dell’ambientalismo, del femminismo e delle lotte per l’estensione dei diritti umani e civili. Il perseguimento di un’Unione, richiede di comprendere, sempre seguendo il ragionamento di Edgar Morin che «L’unité, elle est dans ses sources: l’aspiration à un monde meilleur, l’émancipation des opprimés, exploités, humiliés, offensés, l’universalité des droits de l’homme et de la femme. Ces sources, activées par la pensée humaniste, par les idées de la Révolution française et par la tradition républicaine, ont irrigué au XIXe siècle la pensée socialiste, la pensée communiste, la pensée libertaire»[4]. (Edgar Morin – 4a di copertina-op. cit.). La conclusione è che la sinistra nel XXI° secolo debba essere “socialista, comunista, ambientalista e libertaria”, cioè ricomporre i tre filoni più antichi alle sue radici, con l’apporto più recente della sensibilità ecologista, indispensabile se si pensa che sia in discussione la stessa vivibilità del pianeta Terra per il genere umano. Una tale proposta può apparire paradossale, ma ogni paradosso è tale se contiene una parte di verità, perché il processo che ha portato alla creazione di partiti nella sinistra è stato, invece, dominato dalle separazioni: i partiti socialisti dagli anarchici e i partiti comunisti dai socialisti. Queste separazioni sono state necessarie perché le discussioni interne erano fattore di paralisi, ma compiuta la loro missione (o falliti i loro obiettivi), bisogna chiedersi se sono ancora attuali per far fronte alle nuove sfide e all’impasse nella quale la sinistra appare essersi cacciata. Alle spalle abbiamo la costruzione di una società socialista, quella sovietica, nella quale le libertà sono state soppresse insieme con la democrazia e lo stato di diritto, con diseguaglianze intollerabili tra la nomenklatura e il popolo e un sistema economico inefficiente e non rispettoso dell’ambiente, al pari delle situazioni dove il profitto privato è l’unica fonte di valore. La via gradualista del socialismo democratico ha creato in Europa un sistema di protezione sociale avanzato, ma il cui mantenimento appare precario anche a causa delle gravi, recenti e ripetute sconfitte elettorali dei partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti. Sconfitte che hanno le loro radici in quella che molti definiscono ancora la golden age del socialismo europeo, quando su 15 paesi dell’UE 13 primi ministri erano socialisti e il 14° si chiamava Romano Prodi. L’adesione di principio ad un turbo-capitalismo in crescita, apparentemente infinita, ha messo in crisi il rapporto con settori tradizionali di elettorato: le sconfitte elettorali sono state provocate dal passaggio all’astensione degli elettori socialisti, piuttosto che a formazioni più a sinistra o ecologiste: il caso tedesco è esemplare poiché Linke e Verdi hanno raccolto poco meno di un terzo delle perdite SPD. Conquiste durature nel tempo e consolidate negli effetti si sono realizzate soltanto in alcuni paesi dell’Europa del Nord, si tratta di società dove le diseguaglianze si sono ridotte e la protezione sociale è estesa. Con l’ eccezione del Brasile, in nessuno dei grandi paesi del mondo e in quelli emergenti, dagli Stati Uniti[5] alla Federazione Russa, dalla Cina all’India, per non parlare delle medie potenze regionali, come la Turchia, l’Iran, l’Egitto e in proiezione Africa del Sud e Nigeria, è al potere una forza politica, che si definisca socialista o che al socialismo si richiami. In un mondo dove si pone il problema di un governo mondiale per affrontare i problemi globali non è da poco constatare una riduzione dell’influenza socialista al di fuori del continente europeo e della sua appendice australe. La sinistra latino americana si presenta molto variegata. L’America del sud resta tuttavia il continente dove più fecondo si annuncia un rapporto con il socialismo europeo: emigrazione europea ed esilio sud americano hanno creato le condizioni materiali e soggettive per un confronto e un reciproco arricchimento. Le nuove esperienze di Bolivia ed Ecuador hanno superato i limiti dei primi partiti socialisti, fondati da emigranti europei, di cui si diceva che avevano i piedi in America, ma la testa in Europa. L’insegnamento di Haya de la Torre e della sua APRA, membro dell’Internazionale Socialista non è andato perduto, malgrado che il peruviano Alan Garcia non sia più un luminoso esempio di socialismo. Cile, Uruguay e Argentina hanno, invece, un sistema politico più europeizzante, specialmente i primi due e con il terzo influenzato, marcato dal peronismo, le cui radici europee, anzi italiane sono evidenti. Un’Unione per il Socialismo nel XXI° secolo si deve mettere alla prova in America Latina, che sarebbe più corretto chiamare Indio-latina, per rispetto dei popoli indigeni, se vuole misurarsi a livello planetario. L’orizzonte privilegiato d’azione della sinistra italiana resta, comunque, quello europeo, anche per la ragione che l’Unione Europea costituisce un vincolo istituzionale, che non può essere ignorato, quale che sia la nostra (in)soddisfazione per il suo processo di costruzione e per il grado di democraticità delle sue istituzioni e/o di adesione ai suoi valori fondanti, che hanno privilegiato la libertà di circolazione dei capitali, di concorrenza e di tutela dei profitti, rispetto alla coesione sociale. L’europeismo deve essere un tratto distintivo dell’Unione per il Socialismo, come orizzonte dal quale aspettare che sorga il sol dell’avvenire, se mi è consentito di usare un riferimento iconografico del primo socialismo. Le ragioni sono molte. Nessun stato nazionale europeo è in grado di condurre una politica economica autonoma e al riparo dalle speculazioni finanziarie internazionali o di intraprendere una politica estera di cooperazione internazionale multipolare o di sicurezza fondata sulla pace. Senza una politica di crescita con investimenti infrastrutturali e nella ricerca/innovazione con riduzione drastica della disoccupazione gli Stati europei non usciranno dalla crisi e saranno esposti alla speculazione internazionale sul debito pubblico degli Stati. Se le speculazioni avessero successo, sarebbe la fine dell’Euro. La debolezza della moneta europea dipende dalla mancanza di una politica economica europea e quest’ultima dall’assenza di un governo europeo, cioè da una Federazione.

Le ragioni di fondo della scelta europeista e federalista sono contenute nel Manifesto di Ventotene “per un’Europa libera e unita” scritto da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi nel 1941 e pubblicato a Roma nel 1944 con una prefazione di Eugenio Colorni. Le biografie di questi tre uomini sono significative per l’Unione, che si deve costruire, Spinelli era un comunista eretico, Rossi un militante di Giustizia e Libertà e Colorni un socialista a tutto tondo. Spinelli e Rossi hanno potuto essere protagonisti di battaglie politiche democratiche anche nel dopoguerra e non solo in Italia[6]. Colorni fu, invece, come Bruno Buozzi, ucciso dai nazisti alla viglia della liberazione di Roma. Una tragedia per il movimento socialista, con questi personaggi alla guida del Partito e della CGIL lasciatemi credere, o anche illudere, che i rapporti di forza tra socialisti e comunisti sarebbero stati diversi per forza delle idee e delle cose, naturalmente. Non ci sarebbe stato il bisogno di ricorrere ad esibizioni di forza muscolare, come negli anni ’80, con l’esito che conosciamo e che hanno impedito alla sinistra italiana, a differenza di quella francese, di proporsi alla guida del paese e di perdere le occasioni per un sano revisionismo unitario. Se non a partire dai moti operai di Berlino del 1953, quelli del feroce epigramma di Berthold Brecht sulla dirigenza della SED e della DDR[7], o dai fatti ungheresi del 1956, almeno dalla primavera di Praga del 1968 e dalla Polonia di Solidarność: addirittura è stato possibile ignorare, nei rapporti tra i due partiti, persino la caduta del Muro di Berlino del 1989. Le vicende italiane non hanno seguito nella sinistra quelle del resto d’Europa, dove la divisione tra Est e Ovest si è riprodotta meccanicamente. Nell’Europa orientale, come già detto, l’unificazione forzata portò alla scomparsa di ogni autonoma presenza socialista anche nei paesi dove era stato salvaguardato un apparente pluripartitismo: ne beneficiarono, invece, partiti democratici cristiani, liberali, contadini e persino nazionalisti democratici. Paradossalmente questi partiti si sono trovati a godere di un vantaggio competitivo rispetto ai socialisti democratici dopo il crollo del comunismo. In Europa  la Guerra Fredda condusse i partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti ad una scelta di campo occidentale, con la sola eccezione fino alla rivoluzione ungherese del 1956 del PSI. Nel caso italiano il patto di unità d’azione portò i socialisti ad essere critici nei confronti dei primi passi della Costituzione europea, anche se alla fine si astennero sulla ratifica del Trattato di Roma istitutivo della C.E.E., mentre il PCI votò contro. In Italia socialisti e comunisti mantennero relazioni strette, senza paragone, con quelle di altri paesi europei, nel sindacato, nel movimento cooperativo, in organizzazioni di categorie, sportive e ricreative e soprattutto nel governo di comuni e province e, dopo la loro istituzione, anche nelle regioni. Il mancato isolamento del PCI all’opposizione fu un fattore di evoluzione dei comunisti italiani, come antidoto ad una chiusura settaria, ma nel contempo frenò possibili e necessari revisionismi: l’esito è stato quello di un movimento socialista, anche a causa della scissione di Palazzo Barberini, diviso e più debole del PCI. Quella che poteva essere una contaminazione feconda, fu vissuta da parte socialista come una subordinazione dalla quale liberarsi per poter raggiungere la propria famiglia europea e da parte comunista come un ostacolo per una completa egemonia a sinistra. Il risultato è stato quello di una sinistra, che anche nei momenti della sua massima espansione, quando la somma dei due partiti superava il 40% non si è mai posta l’obiettivo di governare il paese con propri uomini e sulla base di un proprio programma, dopo la batosta del 18 aprile 1948. Superare questo ritardo storico è un altro degli obiettivi da assegnare all’Unione per il Socialismo nel XXI° secolo. Nella congiuntura attuale è un compito ancora più difficile che nel passato, si vivono ancora i risentimenti dell’opposizione di principio del PCI al più profondo tentativo riformatore del dopo-guerra il primo centro-sinistra, che non sviluppò tutte le sue potenzialità anche a causa della scissione dello PSIUP del 1964 e i reciproci tentativi di emarginazione con il pentapartito di ferro e il CAF da un lato e il compromesso storico dall’altro. Un’inversione di rotta appare indispensabile per uscire da una condizione di minoranza, che esclude ogni possibile alternativa credibile al regime berlusconiano, nemmeno quando la sua disgregazione politica e morale appare evidente. Soprattutto dobbiamo una risposta alla maggioranza degli italiani, che dobbiamo far uscire dalla crisi. Una crisi, che conferma le critiche di sistema, ad un mercato senza regole e in preda alle speculazioni finanziarie più azzardate, ma dalla quale non stanno emergendo le forze di progresso e giustizia sociale, ma un mix pericolosissimo di populismi demagogici, regionalismi egoisti e nazionalismi con venature razziste. Il pericolo per le istituzioni democratico-rappresentative e per le libertà civiche è imminente e concreto: la perdita di potere dello stato nazionale, il quadro istituzionale che ha garantito la democrazia e il progresso sociale, non è stata compensata dall’estensione della democrazia e della protezione sociale nelle istituzioni sovranazionali. La dimensione europea e planetaria dei problemi richiede un confronto e una cooperazione allo stesso livello, da qui discende l’esigenza di rapportarsi prioritariamente con il socialismo europeo, che sarebbe banale ridurre a un questione burocratica di adesione al PSE o di nome del futuro partito unitario. C’è più socialismo democratico nel New Democratic Party canadese, che nel socialismo bolivariano. Nel socialismo europeo a partire dal congresso di Praga del PSE del 2009 si estende la consapevolezza di una ricollocazione a sinistra ed il processo è in corso anche nei maggiori partiti dalla SPD al Labour di Ed Miliband (si legga il volume Europe’s Left in the Crisis, How the next left can respond, edito nel 2011 da Fabian Society e FEPS). I motivi di divisione per Rino Formica sono talmente profondi da richiedere una o due generazioni: così tanto tempo non ci è consentito, a meno di arrendersi ad una concezione antropologica delle differenze tra socialisti e comunisti, così ben riassunta dall’invettiva “i socialisti coi socialisti! I comunisti coi comunisti!”, che può essere gridata indifferentemente da un emulo di Bordiga o da un seguace di Prampolini. In un contributo per questo convegno il compagno Fulvio Papi scrive che “La formazione di un partito della sinistra che superi le divisioni politiche attuali mi pare, allo stato delle cose, una opportunità interessante e, nello stesso tempo, un’impresa molto difficile. La opportunità consiste nel riuscire politicamente a rappresentare in maniera continuativa, facilmente riconoscibile ed efficace, un “blocco storico” (per usare l’espressione gramsciana) che unisca i cittadini convinti che sia rilevante per il paese e concretamente possibile una politica al cui centro sia l’obiettivo di usare le risorse disponibili per migliorare la qualità sociale della vita.” Paradossalmente ci può essere utile tornare ad un concetto, che Turati ripete nel suo celebre discorso a Livorno, con il quale rovesciò la decisione già presa della sua espulsione, cioè che non c’è differenza sul piano ideale tra comunismo e socialismo o per dire sempre con Fulvio Papi che «in ogni caso oggi il “comunismo” è il senso di una comunità che ha una cultura di solidarietà, il “riformismo” è il mezzo, molto difficile nella situazione attuale, per ottenere risultati pratici che consentano di realizzare in concreto quella finalità sociale». Oggi cominciamo a gettare un seme di dialogo e confronto, anche se avvertiamo la contraddizione tra la necessaria prudenza di non compier passi falsi e l’urgenza di elaborare una risposta. A mo’ di aneddoto vi voglio raccontare la sintesi politica di un mio compagno di liceo, che ha fatto la sua fortuna in Cina. Per lui, che in Italia era simpatizzante della destra, la soluzione dei problemi è semplice: 1) tutto il potere politico a un partito comunista 2) tutto il potere economico ai capitalisti 3) chi rompe i coglioni in galera. Di fronte a questa ricetta semplice e brutale, non possiamo limitarci alle raffinate analisi di Chantal Mouffe (Charleroi 1943) sul Paradosso democratico o su Egemonia e strategia socialista, quest’ultima insieme a Ernesto Laclau (Buenos Aires 1935)[8] o aspettare la traduzione in italiano di ”Ill fares the land” di Toni Judt (1948-2010), ma dobbiamo dare indicazioni chiare e comprensibili e riparlare di unione, cioè di uno sforzo comune, e di socialismo, cioè di un’idea di società e di relazioni umane alternative a quelle presenti: ciò rappresenta un buon inizio. In Italia il quadro è reso ancora più complicato dalla divisione sindacale, che le vicende FIAT hanno reso ancora più acuta e urgente il suo superamento. Dice un proverbio turco che “le notti sono incinte, ma nessuno sa quale giorno nascerà”. Saperlo dipende in parte anche da noi.

[Redazione 18 febbraio 2011]


[1] La concezione del Partito di Turati appare, invece, distante da quella di Bad Godesberg, dove nel 1959 la socialdemocrazia tedesca passò da “Klassenpartei” (Partito di classe) a “Volkspartei” (Partito di popolo).

[2] Reprint dell’Avvenire dei Lavoratori, Milano, Fondazione Kuliscioff, pag. 62.

[3] «Mi ha sempre ripugnato questo LA unificatore, che nasconde le differenze, le opposizioni e i conflitti. Poiché la sinistra è una nozione complessa nel senso che questo termine comporta in se stesso unità, concorrenze e antagonismi»

[4] «L’unità è nelle sue fonti ispiratrici: l’aspirazione a un mondo migliore, l’emancipazione degli oppressi, sfruttati, umiliati e offesi, l’universalità dei diritti dell’uomo e della donna. Queste fonti, attivate dal pensiero umanista, dalle idee della Rivoluzione francese e dalla tradizione repubblicana, hanno irrigato nel XIX° secolo il pensiero socialista, il pensiero comunista, il pensiero libertario»

[5] Eppure il movimento socialista ha avuto negli USA personaggi di grande personalità e notevole spessore intellettuale come Eugene Debs, Norman Thomas o Michael Harrington, presidente del Socialist Party (1968-1972) e in seguito dei Democratic Socialist of America (1982-1989)

[6] Spinelli è stato protagonista della costruzione europea sia su indicazione del PSI come Commissario Europeo (1970-1976), che come indipendente eletto dal PCI sia nel parlamento nazionale che europeo (1976-1986).

[7] Il senso dell’epigramma era che l’Ufficio Politico della SED aveva deliberato che il popolo non godeva più della fiducia del Governo e del Partito, che pertanto lo avrebbero sciolto e se ne sarebbero scelti un altro.

[8] I giorni 24 (Laclau) e 25 (Moffe) febbraio sarà possibile assistere ad una loro conferenza alla Federazione Basso a Roma, via Dogana Vecchia 5 (www.fondazionebasso.it).