«Questa direzione nazionale del PSI è stata opportunamente convocata dopo il primo turno di elezioni amministrative locali, che hanno assunto un significato nazionale. Gli elettori coinvolti sono in numero di poco superiore ai 13 milioni, 11 le province, ma soprattutto 4 grandi città, Milano, Napoli, Torino e Bologna, geograficamente distribuite, come anche altre 24 città capoluogo di Provincia, di cui 11 con più di 100.000 abitanti. Una sola grande regione era esclusa dalla consultazione, la Sicilia, in cui si voterà alla fine del mese, insieme con i 35 ballottaggi comunali e provinciali significativi. Le somme potranno essere tirate soltanto alla fine in base ai criteri delle città perse o guadagnate e della popolazione complessivamente amministrata.

Tuttavia, a prescindere da quel bilancio, è un fatto che i risultati di Milano hanno occupato la scena per il significato politico e simbolico, che trascende i confini cittadini. Le ragioni son di diverso ordine, la prima è stata la decisione di Berlusconi di attribuire alle municipali di Milano un significato di testo sul suo consenso, nel paese e nella città in cui si celebrano i suoi processi. Il ballottaggio era dato per certo con la presentazione del Terzo Polo e del movimento 5 Stelle, che avrebbero alzato il quorum, ma non il sorpasso e soprattutto la sua entità. Se Pisapia avesse preso in assoluto i voti del Prefetto Ferrante (mi sia consentito di dire che c’è Prefetto e Prefetto, senza toglier nulla alla personalità di Morcone) avrebbe sfiorato l’elezione diretta. Il risultato di Pisapia è stato una smentita delle previsioni fatte anche nel partito, che Pisapia non era il candidato più idoneo a vincere la sfida, come invece ritenuto da altri soggetti dell’area socialista in senso lato, in particolare dei Circoli libertari e socialisti aderenti al Gruppo di Volpedo. Proprio Volpedo era stata scelta da Pisapia, allora soltanto auto-candidato alle primarie, per annunciare una sua candidatura, che collegava espressamente, e per la prima volta a Milano dopo il 1992, un esponente della sinistra, alla tradizione delle Giunte a guida socialista, non solo del periodo prefascista, ma del dopoguerra, a cominciare da Greppi fino a Tognoli passando per Aniasi, l’indimenticabile comandante partigiano Iso.

Il riferimento ai valori socialisti non si fermava all’Italia, perché l’altra sua fonte d’ispirazione sarebbero state le amministrazioni socialiste delle grandi città europee, Berlino, Parigi e Barcellona per essere precisi nella sua citazione: profonda convinzione o solo tattica, come denunciato dai suoi detrattori? Comunque un segno epocale ricordando il clima di Milano, quando Nando Dalla Chiesa candidato sindaco “progressista” guidava le manifestazioni di giustizialisti assatanati sotto la sede socialista di Corso Magenta. Pisapia, che conosce bene Milano, non poteva farsi etichettare come un esponente della sinistra estremista e perciò il riferimento alla tradizione socialista l’ha fatto anche nel comizio con Vendola, cioè del leader di un partito, che non è stato in grado di sciogliere il nodo dei suoi rapporti con il PSE. Ritengo che il nuovo clima abbia in qualche modo contribuito all’ottimo risultato del segretario provinciale, compagno Roberto Biscardini, nella lista del PD, benché tale collocazione non fosse una scelta unanimemente condivisa. Con la vittoria di Pisapia al ballottaggio ci sarà finalmente di nuovo un socialista in Consiglio comunale, nella città simbolo delle nostre virtù municipali, che Tangentopoli aveva cancellato. Tutti dobbiamo congratularci per questo risultato, che con un maggior impegno e minore dispersione poteva essere raddoppiato. Bisognerà rapidamente ricostruire sinergie tra il partito e la più vasta area socialista, affinché si possano tradurre in atto i contributi programmatici dei socialisti al programma elettorale di Pisapia.

Queste elezioni possono segnare un punto di non ritorno della crisi del berlusconismo e dei rapporti PdL-Lega, se sapremo interpretarle in tutte le loro contraddittorietà e assegnare un ruolo al nostro partito e all’area socialista, che è ben più vasta, almeno potenzialmente, del nostro bacino elettorale.
Due letture semplificatrici vanno respinte:la prima che mette insieme Pisapia,(Milano), Zedda (Cagliari) e De Magistris (Napoli) per dire che i migliori risultati si hanno con candidati alternativi a quelli del PD e la seconda, che il bipolarismo è ormai definitivamente acquisito e che pertanto il futuro del centro-sinistra è una riaggregazione intorno al PD o addirittura nel PD. Pisapia va al ballottaggio, ma con più di 6 punti di vantaggio. Zedda (44,7%) e Fantola (45,1%) sono testa a testa, De Magistris è 12 punti sotto a Lettieri. I primi sono candidati di primarie di coalizione, anzi Pisapia ha aggregato altre liste, il terzo è invece il frutto del fallimento di primarie del PD e si pone tuttora, anche in vista del ballottaggio, come fattore di divisione. Pisapia e Zedda sono espressione di un’alleanza coesa di forze, cui hanno aggiunto un plus del loro consenso personale. De Magistris ha, invece, surclassato persino le liste che lo sostengono e diviso SEL.
L’unico dato comune è che nelle loro città il successo dei “Grillini” è sotto la media: le liste 5 Stelle hanno il massimo di successo dove il candidato, non solo è del PD, ma è anche percepito come un apparatniki espressione della sua nomenklatura(Bologna e Ravenna 9/10%, Rimini 11,11, all’eclatante 14,55% di Cesenatico), costringendo il Centro-sinistra, tranne che a Bologna, a problematici inusuali ballottaggi.
Il Terzo Polo è andato male, a prescindere che non si quasi mai presentato sotto tale nuova veste, ma come sommatoria di sigle e in varie occasioni addirittura in coalizioni concorrenti. Questo deludente risultato ha sicuramente un merito, per quanto ci riguarda, di non costituire più un’attrazione centrista per socialisti, che non credono nella sopravvivenza del partito e, perciò nella sua idoneità a essere il veicolo per le loro attese elettorali o, più volgarmente, di carriera nelle istituzioni. Dalla sua il PD ha la forza dei numeri: Enrico Letta a Porta a Porta ha ricordato, che sono del PD i 2/3 dei voti del Centro-sinistra e Anna Finocchiaro a Ballarò che 27 (per Bersani 28) candidati in ballottaggio su 35 sono del suo partito. Non contesto i dati quantitativi, ma se vogliamo esaminare i trend, hanno importanza anche dati qualitativi. Trovare un’intesa su un programma amministrativo non sempre è facile (a Napoli, per esempio, il ballottaggio sarà deciso dal partito trasversale per l’inceneritore, cui De Magistris si oppone), ma non impossibile. Diversa è la situazione per un’alleanza/confluenza in vista di elezioni politiche anticipate, come probabile se Pisapia vince a Milano e Lettieri non vincesse a Napoli, o a scadenza naturale. La natura composita del PD e il suo orizzonte nazional-provinciale (non fa parte di nessuna formazione politica europea e neppure di un unico gruppo del Parlamento Europeo) non lo caratterizzano su grandi scelte come la politica economica e non è univoco, cioè è equivoco, in argomenti come il testamento biologico, la laicità delle istituzioni, i rapporti con il Vaticano e la gerarchia cattolica, la legge elettorale o le riforme istituzionali.

Il PD è il soggetto più forte, ma di un’opposizione debole, cioè che agli occhi degli italiani non è ancora un’alternativa credibile allo sgretolamento del sistema di potere berlusconiano. Per responsabilità del PD la sinistra, e in essa i socialisti, è stata, caso unico in Europa, esclusa dal Parlamento nazionale e da quello europeo. L’IdV, che perdeva regolarmente consensi da un’elezione all’altra, è stata salvata e rafforzata dall’apparentamento, il solo concesso, con il PD, che, invece, scientemente l’ha negato a una formazione di sinistra riformatrice d’ispirazione socialista. Non si fa una storia con i se, ma con il ricatto del voto utile si è spinto nel 2008 settori di elettorato di sinistra a votare PD o di astenersi o di disperdersi in liste, che non hanno raggiunto il quorum. Si è regalata una maggioranza molto più ampia all’alleanza PdL-Lega alla Camera e al Senato, in quest’ultima Camera ripetendo gli errori del 2001 (errori politici e di ignoranza costituzionale che nessuno dei responsabili ha mai pagato). Una scelta diversa avrebbe portato ad una coalizione PD, IdV, Sinistra riformatrice un maggiore consenso, con un effetto di trascinamento sulle elezione europee dell’anno successivo. Il sistema bipolare, che secondo il nostro segretario Riccardo Nencini, esce rafforzato da questa tornata amministrativa, esiste soltanto grazie ai premi di maggioranza incostituzionali (l’ha rilevato in ben due sentenze del 2008 la stessa Corte Costituzionale) per l’elezione della Camera dei Deputati e dalla combinazione di elezione diretta e premio di maggioranza per gli enti locali e per le regioni, per quest’ultime aggravato dall’assenza di ballottaggio. Questo bipolarismo artificiale costringe ad alleanze non trasparenti, cementate da squallidi accordi su liste bloccate. I parlamentari, la cui elezione non dipende dal consenso degli elettori, possono passare con maggior disinvoltura da uno schieramento all’atro: cioè ricercare il nuovo padrino, che garantisca un posto utile nella lista bloccata. Meccanismi di stabilità son stati pagati in termine di degrado delle assemblee elettive, che non sono più luoghi di selezione della classe politica. Senza un bipolarismo artificiale la Lega Nord si sarebbe smarcata da qualche tempo da un’alleanza col PdL. Senza premio di maggioranza e liste bloccate i dissensi nel PdL, ispirati da Fini, sarebbero stati più consistenti e non si sarebbero trovati così tanti “responsabili” e “volonterosi” a puntellare il governo. I successi dei “Grillini” e di movimenti regionali son un segno del rifiuto del bipolarismo forzato, come l’espansione della Lega a sud del Po. Altro indicatore è l’aumento delle astensioni o il tentativo di creare una forza a sinistra del PD, come SEL o la Federazione della Sinistra o l’eterna tentazione di un blocco laico, liberal-libertario, social-riformista.

Tutte risposte parziali e deludenti al problema, che in Italia non c’è un partito di sinistra in grado di proporsi alla guida del paese con suoi leader e programmi. Nel 1972 PCI e PSI avevano il 36,76%, che sale al 44,01% nel 1976. La sinistra, pur escludendo DP e incorporando i Verdi, è sopra il 40% nel 1983 e 1987 e sfiora il 50% nelle Europee del 1989. Nelle elezioni successive a cominciare da quelle del 1992 la sinistra, grazie alla quasi scomparsa del PSI, è sempre sotto il 30%, pur facendo una somma politicamente impossibile tra PDS e Rifondazione, partito quest’ultimo, che comunque non supererà mai il 9%. Nel 2001 DS, Rifondazione e PdCI non raggiungono il 25% nella parte proporzionale. La debolezza socialista (1%) nel 2008 è un segno della debolezza della sinistra. Se questo è il problema del nostro sistema politico, non ha senso rafforzare il bipolarismo di coalizioni necessitate dalla legge elettorale, perché mancano di appeal e di coerenza programmatica. Diverso sarebbe un bipolarismo di tipo tedesco con CDU-CSU/FDP da un lato e SPD/Verdi dall’altro, che se fosse estensibile alla Linke sarebbe addirittura maggioritario. La legge elettorale vigente consente di mascherare scelte politiche come stati di necessità: se ci si vuol alleare con UDC e Fli si dica perché e si enunci chiaramente il programma. Una tale alleanza non può essere fatta che in funzione anti-Berlusconi e con obiettivi limitati di riforma della legge elettorale e costituzionale. Ritengo che i problemi dell’Italia e degli italiani siano altri: l’uscita dalla crisi, con una diminuzione delle diseguaglianze sociali, di reddito e territoriali l’estensione dei diritti civili, di libertà e di partecipazione, investimenti nell’istruzione, formazione, ricerca e innovazione e un modello di sviluppo eco-compatibile e una politica di sicurezza, cooperazione e pace, che affronti a livello continentale le cause strutturali del sottosviluppo e delle migrazioni di massa e il controllo dei mercati finanziari.

Il PSI come espressione dei socialisti organizzati in Partito, ma con l’ambizione di rappresentare qualcosa di più dei socialisti anagrafici, deve decidere cosa vuol fare, cioè giocare a tutto campo nella scomposizione e ricomposizione della sinistra italiana in un’ottica e con respiro europeo e internazionale ovvero fare da agenzia di collocamento per un gruppo dirigente in liquidazione. Il nostro segretario ha evocato un’Epinay italiana. L’immagine mi piace per la sua grande forza evocativa e simbolica e poiché è una persona seria intelligente, non avrà voluto attribuire a Bersani il ruolo, che già fu di Mitterrand in Francia: non ne ha lo spessore “fiorentino”, caratterizzato come è da una bonomia tutta emiliana. Un’Epinay italiana, se vuol essere una cosa minimamente seria, non può essere un processo di qualche mese tra gruppi dirigenti e una bella riunione con bandiere (rosse, rosa, arancioni, biancogialle o tricolori?) per una o più reti televisive, ma coinvolgere tutta la sinistra senza esclusioni a priori e perciò anche SEL e settori della Federazione della Sinistra, nonché circoli, associazioni o altre forme aggregative tematiche e/o territoriali e i loro coordinamenti associazioni e prevedere in tutti i soggetti interessati un passaggio congressuale, inevitabile per ragioni politiche e vincoli statutari.

Felice Besostri
intervento preparato per la DN del PSI