*Relazione tenuta al convegno internazionale della Lega per i diritti e la liberazione dei popoli: “ Cecoslovacchia 10 anni dopo: quali prospettive per il socialismo in Europa »
Milano, settembre 1978
di Felice Besostri
Voglio parlare del caso cecoslovacco come caso emblematico e contraddittorio delle possibilità di riforma o di cambiamento di un paese a “socialismo reale”. Utilizzo questa definizione senza con questo voler ritenere che siano o no, società socialiste (credo che questo non sia, era l’altro, un punto molto importante, quello della definizione di queste società, rispetto ai loro problemi).
Da un lato l’esperienza della « primavera » di Praga sta a dimostrare la possibilità della trasformazione di questi regimi dittatoriali, dispotici, polizieschi, burocratici in qualcosa di diverso, cioè in regimi basati sulla partecipazione delle masse, dove i cosiddetti diritti di libertà sono goduti pienamente. Uno dei segni caratteristici della primavera di Praga era la libertà della stampa, della radio, della televisione, libertà che fu ampia anche a confronto con quanto avviene nei nostri Paesi dell’Europa Occidentale dove ci sono le strozzature determinare dai monopoli o da chi controlla questi mezzi di informazione.
Quanto è avvenuto sta a dimostrare che questa possibilità esiste, cioè una strada è stata indicata e può sembrare ripercorribile: se è avvenuto in Cecoslovacchia, può avvenire in altri paesi a socialismo reale e, comporta quale conseguenza per la nostra azione, che si individuino i nostri interlocutori naturali nei partiti comunisti di questi altri paesi.
Possiamo sempre sperare che un Dubček o un Smyrkowsky se ne stiano nascosti, ma sempre pronti ad uscire allo scoperto! Ma l’esperienza cecoslovacca dimostra, anche nel paese dove queste possibilità si sono realizzate e le condizioni per realizzarsi erano le migliori, che l’esperienza è finita il 21 agosto 1968 con l’ invasione delle eruppe del patto di Varsavia (eccetto la Romania) .
Questo è uno dei punti che noi dobbiamo affrontare: è la difficoltà di sapere se da quell’esperienza noi possiamo trarre un insegnamento di carattere generale, sia esso quello della possibilità di una trasformazione, sia quello dell’impossibilità.
Sulle possibilità: la Cecoslavacchia era un caso particolare, era un paese nel quale anche prima del colpo di stato del febbraio 1948 il Partito Comunista esercitava una vasta influenza (concordo con Boffa quando dice che definirlo colpo di stato forse non è esatto; anzi uno degli estimatori della via cecoslovacca al socialismo, un cerco Jan Kozak definisce in un suo libro la presa del potere comunista del 1948 col titolo « senza colpo ferire » cioè come esempio di conquista del potere basata sulla duplice pressione dall’alto e dal basso, voluta dal parlamento, che poi legittimò il governo, e dalle masse).
Tuttavia, se non fu un colpo di stato, un colpo di stato in senso classico, la sua evoluzione rapida e successiva fino ai processi staliniani degli anni ‘50 è tale da dire che le conseguenze sono state le stesse di un colpo di Stato e per 20 anni in Cecoslovacchia si è pagato la frattura creata nella società con la presa violenta del potere. Comunque c’era un partito comunista con una base di massa e un ampio consenso elettorale, un partito comunista che aveva tra l’altro come suo retroterra (anche questo è un fatto importante) una forte tradizione socialdemocratica (d’altronde la Cecoslovacchia ha sempre gravitato verso il Centro Europa e la socialdemocrazia tedesca) ; vi erano delle condizioni di produzione molto più avanzare che negli altri paesi dell’Est. C’era una tradizione democratica e civile in Cecoslovacchia che non trovava riscontro negli altri paesi dell’Europa Orientale. La primavera c’è stata, però c’è stato anche l’intervento il freddo Agosto 1968.
Da qui il problema se i limiti a queste esperienze di riforma di un sistema comunista sono soltanto limiti esterni, cioè l’appartenere o meno a un blocco -ed è la questione che poneva all’inizio il compagno Basso sulle cause che hanno determinato questo intervento- e dipende dalle risposte alla questione se l’Unione Sovietica sia o no una potenza imperialista.
Sono dell’opinione che il concetto di imperialismo ha un suo significato ben preciso, storico, e che la sua applicazione meccanica all’Unione Sovietica può essere errata da un punto di vista filologico. Il problema filologico può essere facilmente risolto definendolo un imperialismo diverso da quello degli Stati Uniti.
Credo che non siano ancora stati esplorati a fondo i rapporti tra Unione Sovietica e i Paesi dell’Est dell’Europa. Si tratta di vedere in concreto se c’è trasferimento di risorse da questi paesi dall’Unione Sovietica, se questi rappresentano o no un mercato insostituibile per certe merci dell’Unione Sovietica. Vi sono alcune caratteristiche nei rapporti dell’U.R.S.S. con gli altri paesi, anche con i suoi alleati, per cui tali rapporti, sono a mio avviso, di tipo imperialistico, per lo meno sono rapporti che cercano di mantenere un rapporto di dipendenza verso l’Unione Sovietica.
Un caso è quello di Cuba. La necessità di mantenere quella rivoluzione con l’aiuto dell’Unione Sovietica, ha avuto però una conseguenza: una delle caratteristiche di Cuba al tempo della dominazione imperialista quella di essere un paese sostanzialmente monoproduttore, è stata mantenuta, anzi rafforzata rispetto ai primitivi programmi di diversificazione produttiva. Cuba deve continuare a produrre più zucchero poiché esso è l’unico prodotto che è in grado di dare in cambio all’Unione Sovietica.
Anche in Cecoslovacchia ci sono questi elementi: c’era il problema dell’ uranio sfruttato da società miste cecoslovacche e sovietiche, trasferito quasi interamente nell’Unione Sovietica a prezzi inferiori a quelli del mercato internazionale. Mancano troppi elementi per poter stabilire se questi e altri rapporti, come la tendenza alla integrazione del Comecon che crea tra l’altro grosse resistenze anche all’interno dei paesi dell’Est, anche fra i più fidi, a parte forse la Bulgaria, sono stati decisivi per l’intervento repressivo sovietico.
Il problema perciò di uno stato, come la Cecoslovacchia, che scegliesse un altro modello politico, aveva probabilmente anche delle conseguenze di tipo economico, cioè il rifiuto di una integrazione più spinta tra le economie dei Paesi dell’Est, tale da renderli talmente interdipendenti uno dall’altro che nessuno dai paesi poteva svolgere una propria politica commerciale ed industriale. Sono tensioni, problemi che esistono anche adesso, problemi non risolti dall’intervento dell’Unione Sovietica in Cecoslovacchia tant’è che l’indebitamento verso i Paesi dell’Occidente, di paesi come la Polonia e l’Ungheria, è cresciuto in modo vertiginoso in questi ultimi tempi e la stessa Unione Sovietica si pone il problema, per l’acquisizione di tecnologia, di aumentare l’interscambio con i Paesi dell’ Occidente.
C’è stato indubbiamente da parte dell’U.R.S.S. il rifiuto del possibile modello alternativo cecoslovacco. Questa è una caratteristica comune all’altra potenza imperialista: è l’esempio degli Stati Uniti e dell’esperienza cilena. Causa determinante dell’ intervento dell’imperialismo, erano gli interessi minacciati, (il fatto che ci fosse una produzione di rame che sfuggiva alle multinazionali); oppure, anche in quel caso, era il contagio di un modello? Cioè della possibilità, in paesi dell’ America Latina, di compiere profonde trasformazioni sociali per via pacifica, per via democratica, riaffermando quello che è poi il punto essenziale di ogni trasformazione, cioè l’esigenza di rompere i legami di dipendenza dagli Stati Uniti?
Si è già parlato per inciso, del fatto che nei Paesi dell’Europa occidentale i condizionamenti della potenza imperiale, gli Stati Uniti, sono indubbiamente minori rispetto a quelli della potenza sovietica nei confronti dei Paesi dell’Est. Questo è vero se riferito all’Europa occidentale. Se dobbiamo paragonare queste due grandi potenze, metterei sullo stesso piano i paesi dell’Europa dell’Est nei confronti dell’Unione Sovietica, e i paesi dell’America Latina rispetto agli Stati Uniti, molte sono le analogie.
E vero che l’Ambasciata sovietica teneva dei rapporti con Smyrkowsky, come il dipartimento di stato attualmente tiene dei rapporti con gli oppositori di Somoza; è un’attività normale, poiché se oltre a controllare i governi si riesce anche a conoscere o controllare l’opposizione, il proprio ruolo egemonico ne risulta rafforzato. Torniamo al tema della Cecoslovacchia, che mostra da un lato la possibilità, dall’altro anche un limite, alla trasformazione di un modello politico. Credo che il limite principale consista nell ‘appartenenza a un sistema di alleanza che come tale non è soltanto militare. Necessariamente la appartenenza ad un sistema comporta in sé anche valori di tipo politico ed ideologico, di cui si fa garante la potenza-guida, e, una trasformazione che lega questi princìpi è sottoposta alle reazioni internazionali.
Non so se sarà questo il caso anche del nostro paese. La via che noi abbiamo scelto, tutti quanti, col governo di unità nazionale, è sicuramente tale da metterci al riparo da queste interferenze ma soltanto in quanto non ci si pongono immediatamente obbiettivi tali da poter scatenare reazioni internazionali. Resta comunque il problema che queste relazioni internazionali, il sistema dei blocchi di cui si fa parte, vada attentamente analizzato e considerato per il riflesso che ha anche sulla strategia di trasformazione politica, all’interno di ogni singolo paese.
Anche qui, un rapido inciso sulla Nato. Certo che passare da posizioni che erano comuni tra socialisti e comunisti: “fuori le basi americane della Nato”, al fatto che si è accettato questo tipo di alleanza, è strano, probabilmente c’è anche una terza via, se dobbiamo sempre cercare delle terze vie. Per lo meno discutere di certi meccanismi della Nato e del suo funzionamento, è un’attività che le forze di sinistra in Italia dovrebbero fare e non aspettare, come è stato, la lezione che hanno dato alla sinistra italiana, i socialdemocratici tedeschi, che discutono in profondità della politica di difesa e di sicurezza.
Il sistema dei blocchi: il fatto fondamentale resta perciò che certi cambiamenti avvengano all’interno dell’Unione Sovietica, nel nome del sistema. Sono questi possibili? Credo che c’è una possibilità per ogni società di rispondere positivamente alla necessità di trovare dei meccanismi di trasformazione. Ritengo però che la struttura politica dell’Unione Sovietica sia tale da rendere più difficile questa trasformazione.
Vi è stato, è vero , il precedente riformatore di Chruščёv E stato un serio tentativo di riforma, ma un tentativo di riforma che partiva dall’alto, cioè nasceva all’interno di una struttura piramidale come quella del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e alla quale le masse, la classe lavoratrice, gli intellettuali non potevano essere associati. È questa la grossa debolezza di ogni tentativo di trasformazione dall’interno, poiché la struttura politica, il modo in cui si forma il consenso, si recluta la classe dirigente, impediscono di poter coinvolgere in questa opera di trasformazione la gran parte della popolazione. Senza questo coinvolgimento non è possibile un’opera di trasformazione. Le resistenze interne della burocrazia di partito tesa a conservare un assetto della società che la privilegia, sono tali che senza partecipazione popolare delle masse non è possibile una trasformazione.
La partecipazione delle masse, fa sì che esista la possibilità, di una mobilitazione dal basso e non soltanto dall’alto dietro a mere parole d’ordine; significa anche è questo uno degli aspetti delle società a socialismo reale che occorre rimuovere – rompendo la logica corporativa sulla quale sono fondate. Si afferma il principio che il ruolo dirigente è della classe operaia , che però non lo esercita, perché lo esercita il partito che la rappresenta. Una società di questo genere viene concepita a compartimenti stagni: gli scienziati hanno la loro Accademia delle scienze, gli scrittori la loro Unione degli scrittori, le casalinghe la loro organizzazione, i lavoratori i sindacati. Però ciascuno svolge un ruolo parziale, assegnatogli all’interno del sistema.
Non vi è quella circolarità di idee tra diversi gruppi sociali che può essere assicurata – questo è uno degli insegnamenti della primavera di Praga- soltanto con le più ampie libertà formali, le libertà cosi dette borghesi, la libertà di stampa, la libertà di comunicazione, di manifestazione, di associazione e così via.
Senza questo, anche gli eventuali gruppi riformatori che esistono all’ interno del partito e della società, non hanno la possibilità di potersi esprimere, di entrare reciprocamente in contatto. Questo è un’ altro dei punti da affrontare e che non può essere risolto limitandoci al quesito se sono società socialiste o non socialiste. Francamente ritengo che sia un approccio non laico, quello di partire da una nostra definizione, da un nostro modello di socialismo da cui poi far discendere tutte le altre considerazioni. Sto pensando ai dissidenti condannati recentemente, Scharansky a 14 anni, qualcun altro a 8. Per loro sapere se si trovano in una prigione socialista o non socialista, è assolutamente irrilevante.
Se definiamo queste società come non socialiste, abbiamo la spiegazione immediata del perché delle cose che non vanno. Non vanno perché non sono società socialiste, ecco una spiegazione che risulta, a mio avviso, troppo comoda. Possiamo dire con sicurezza che, se sono società socialiste in cui nulla cambia, non per questo diventano per noi più suggestive. Sono ·assolutamente improponibili al movimento operaio dell’Europa occidentale. Sono, a mio avviso, anche insopportabili per coloro che vivono sotto questo tipo di regime. Tuttavia, di fronte a queste società, credo che occorra appunto lizzarle, come analizziamo altre società: cioè conoscere il grado di partecipazione politica, il modo con cui si forma l’opinione pubblica; sapere come viene reclutata la classe dirigente, quali sono le possibilità di trasformazione. Un atteggiamento, il mio, che vuole essere riformatore e programmatico, più che ideologico.
Ritengo che la prospettiva riformatrice se la pratico nel paese dove vivo, abbia una certa sua validità anche fuori e non condivido pertanto la posizione di coloro, riformatori timidi e quasi inpercettibili dell’Europa orientale, che, quando si tratta dell’Europa occidentale, sostengono che l’unica linea possibile per rovesciare quei regimi è quella tipo Brigate Rosse. Però, detto questo, qui resta un problema per le forze politiche italiane della sinistra: quale atteggiamento assumere nei confronti dei paesi dell’Europa orientale. Nella misura in cui va avanti la sinistra nel nostro paese, in Europa, si hanno riflessi sui Paesi dell’Europa orientale e, avvenimenti, come la Cecoslovacchia hanno riflessi sul nostro paese. Credo che l’atteggiamento delle forze della sinistra italiana e dell’Europa occidentale deve essere molto più netto di quanto sia nel passato. Anche perché, dobbiamo dirlo per evitare preoccupazioni di strumentalizzazione, il compito della poemica ideologica e della difesa del dissenso è un compito che vogliamo assumerci , come partiti di sinistra e che non deleghiamo certo agli Stati.
Dobbiamo evitare la tendenza, che trovo pericolosa per noi e per le possibilità di sviluppo all’Est, di coinvolgere nel problema dei diritti umani o di queste società, i rapporti Est/Ovest e la distensione. Questo è sicuramente da evitare, però occorre che, se decidiamo di impegnarci per la pace e la distensione, il problema dell’interlocutore politico debba essere affrontato in modo molto più preciso che in passato. Credo che le forze rinnovatrici esistevano indubbiamente all’interno del Partico Comunista cecoslovacco e sono emerse da lì; però ora sicuramente non ci sono più.
Il partito comunista cecoslovacco ha avuto una epurazione notevole (circa 500.000 iscritti); alcuni casi li conosco personalmente, di tanti comunisti da 35 anni, che hanno fatto la lotta di resistenza e si sono trovati ad essere espulsi dal partito. Abbiamo tra l’altro fuori dal Partito Comunista un dissenso che non è il solo dissenso intellettuale. Dove ci sono altre possibilità ne terremo conto.
In Cecoslovacchia non si tratta, a mio avviso, di dissenso, si deve parlare di un’opposizione che ha una larga base di mass e che raduna interlocutori politicamente articolati. Una delle lezioni da trarre a 10 anni dal 1968 è quella che a coloro che si oppongono in questi paesi, noi dobbiamo riconoscere la dignità di essere interlocutori politici.
Come c’è un’azione di solidarietà che possiamo fare tutti, dai liberali ai socialisti e ai comunisti, di difesa dei diritti umani e civili di chiunque, dai più reazionari ai più progressisti, vi è poi un compito specifico nostro della sinistra, di individuare all’interno dell’opposizione di questi paesi, non dei casi umani ma interlocutori politici; riconoscendo loro questa dignità, credo che il dibattito al nostro interno e anche al loro interno, ne risulterebbe certamente migliorato.
ALLEGATI:
Quella maledetta primavera del 1968 a Praga(2009)