di Fabio Vander |

Il Partito dei Lavoratori Italiani fu fondato a Genova nel 1892, a seguito di una scissione dal Partito Operaio e segnatamente dalla componente anarchica di quel partito.

Quella promossa da Filippo Turati fu una operazione politica condotta con polso saldo, da vero leader, ma anche con forti elementi, per altro ammessi, di tatticismo ed improvvisazione. Non solo per il modo in cui condusse i lavori congressuali al fine dichiarato di fondare un nuovo partito, ma per come impostò una battaglia di principio proprio contro anti-politica, anti-parlamentarismo ed astensionismo, motivi tipici dell’anarchismo e del vecchio operaismo classista e isolazionista.

Tutto questo insieme di problemi (necessità di un nuovo partito, sue caratteristiche salienti, rottura con gli anarchici ecc.) si ritrova in un importante confronto svoltosi fra Filippo Turati ed Antonio Labriola a ridosso proprio del Congresso di Genova. Al centro della discussione il nesso fra autonomia di classe del proletariato e organizzazione politica, nonché fra nuovo socialismo e “partiti politici” borghesi.

Antonio Labriola era convinto che i tempi fossero ormai maturi per una inedita costituzione ed azione politica del movimento operaio. Lo “Stato Nuovo” moderno, politico, rappresentativo, interventista, non poteva andare senza il protagonismo anche politico delle masse. Il partito in questo senso doveva essere non solo strumento di mobilitazione sociale (come per gli operaisti), ma anche di integrazione politica, di rappresentanza istituzionale, di intervento nella gestione dello Stato e della cosa pubblica.

Dunque: partito, classe, Stato. Non solo le masse nello stato, ma masse organizzate, consapevoli, dirigenti. Non solo dunque allargamento del suffragio, ma capacità di iniziativa politica, di rappresentanza, strategia, governo anche.

La discussione con Turati sul ruolo del partito socialista si situa in un contesto teorico e culturale ben preciso.

Già in uno dei suoi scritti più celebri, quello in memoria del Manifesto dei comunisti, Labriola aveva polemizzato con gli operaisti per il fatto che si limitavano al momento economico e sociale, negando la funzione politica nazionale del movimento operaio. Li chiamava “semisocialisti”, “ciarlatani che ingombrano di sè la stampa e le assemblee dei nostri partiti”, ma anche “farmacisti della questione sociale”, per la loro pretesa di risolvere l’impegno del movimento operaio appunto solo su di un piano economicistico.

Ma questo non poteva bastare. Secondo Labriola occorreva un progetto alternativo: il “socialismo scientifico”, il socialismo “integrale”, capace di tenere insieme politica ed economia. E tenerli insieme in modo perfettamente autonomo, scevro dall’egemonia borghese. Un progetto che chiamava anche “selfgovernment del lavoro”.

Ma non solo. Labriola riteneva che il vero socialismo non potesse che essere democratico, come democratica era stata a suo dire la “Lega dei comunisti” di Marx. Democratico e organizzato (in partito evidentemente), perché senza struttura e disciplina “l’agitazione proletaria, elementare appena e confusa, genera soltanto illusioni, o dà pretesto all’intrigo”. Era una critica serrata dello spontaneismo anarchico e al “partito operaio non politico”, ma anche alle “sette” proletarie o alle “cooperative” o altre forme mutualistiche, ritenute politicamente inadeguate.

Rifiutando ogni “confusa e incoerente forma del bakunismo”, Labriola valutava dunque positivamente la nascita di un autonomo Partito socialista, che intendeva come promotore di una forma di “democrazia sociale”, di una buona sintesi fra democrazia rappresentativa e istanze appunto sociali.

Il dialogo fra Labriola e Turati (ma, vedremo, anche di entrambi con Engels) fu dunque centrato sulla critica dei vecchi modelli movimentisti e operaisti e sulla individuazione dei nuovi caratteri dell’organizzazione socialista.

In una lettera ad Engels del 1891 Labriola aveva denunciato tra l’altro l’“astensionismo” elettorale degli anarchici, che ritardava la maturazione generale del movimento e si risolveva infine “a danno dei candidati antigovernativi”, cioè a favore di Crispi e della borghesia più autoritaria. Con la stessa nettezza però Labriola stigmatizzava le componenti più moderate del movimento operaio italiano, ad esempio i “legalitarii” come Prampolini e Costa, nei quali vedeva “l’estremo limite della corruzione borghese, italianamente allegra e sciamannata” per il loro subordinarsi all’egemonia dei democratici borghesi.

La posizione di Labriola all’altezza dei primi anni ‘90 era dunque chiara: né antipolitica, né politicismo.

Certo restavano molti problemi. Labriola non era convinto del modo in cui si era arrivati alla costituzione a Genova del Partito dei lavoratori italiani.

Ragionando con Turati sui ritardi del socialismo italiano così scriveva: “le cause generali, sempre addotte e sempre ripetute, del capitalismo poco sviluppato, della industria ancora bambina etc. etc. appunto perché troppo generali spiegano poco. Ce ne sono delle altre, tutte specificamente italiane che impediscono anche la nascita di quel piccolo partito, che sarebbe oramai possibile anche in Italia”. Ora queste “cause” erano in primo luogo di soggettività politica, afferivano a limiti organici del gruppo promotore del socialismo italiano, accusato di carenza di volontà e di spirito di sacrificio, ma anche di propensione alla furbizia o a “passioni” che “sanno sempre di faccenderia e di commedia”.

Qui veniamo al punto. Il vero difetto di fondo, strutturale era la vocazione al trasformismo. A quello che Labriola chiamava l’“ecletticismo”, la tendenza a scolorire le differenze nel “mixtum compositum”, secondo quello che considerava “riflesso necessario del mondo in cui viviamo, dove tutto è subiettivo, arbitrario, accidentale, e per ciò non c’è posto per la scienza organizzata, per la disciplina di partito, e per la onesta solidarietà”.

Insomma per Labriola il trasformismo (e dunque la minorità del movimento operaio) si innestava in un contesto d’epoca fatto di relativismo, aleatorietà, “ecletticismo” appunto.

Certo Labriola non risolveva tutto in una sorta di fatalismo, sapeva riconoscere anche il segno di classe di certe tendenze a mantenere il movimento operaio in una condizione di minorità. Come scriveva in una delle celebri “lettere” a Sorel del 1897 la “borghesia” italiana “si è sentita e si sente come fosse tutta la nazione”, aveva saputo porsi come autentica classe nazionale, capace di esprimere un punto di vista generale, unitario, politico in senso proprio. Il movimento operaio di conseguenza si era ridotto, nel migliore dei casi, a junior partner della politica borghese.

Del resto già in una lettera ad Engels dell’ottobre 1892, cioè subito dopo il Congresso di Genova, Labriola aveva scritto: “l’ecletticismo non sparirà così presto. Non è soltanto l’effetto di una confusione intellettuale, ma l’espressione di una situazione. Quando pochi, più o meno socialisti, si rivolgono a un proletariato ignorante, impolitico, e in buona parte reazionario, è quasi inevitabile che ragionino da utopisti ed operino da demagoghi”.

Questa a detta di Labriola era dunque la “situazione” all’indomani del Congresso di Genova: 1) un proletariato che restava “impolitico” (se non “reazionario”); 2) un’organizzazione socialista che non poteva che essere di “pochi”, separati dalle masse e dunque utopisti e demagoghi.

Per superare queste speculari forme di minorità occorreva realizzare che “il tempo dei profeti è trapassato”, che la rivoluzione del ‘900 avrebbe di necessità dovuto essere diversa. Per i “partiti di classe” diveniva decisivo “intendere lo sviluppo dell’èra nuova secondo una misura di tempo, che è assai lenta a confronto del rapido ritmo che concepivano i socialisti intinti di giacobinismo”.

La rivoluzione in occidente (quella adatta all’“èra nuova”) non poteva che essere per tempi lunghi, come diceva Labriola con intuizione che potremmo dire pre-gramsciana.

Solo assumendo radicalmente la questione di una qualità nuova della rivoluzione, sarà possibile evitare sia il giacobinismo, sia la subordinazione alla borghesia, ovvero sarà possibile che “il proletariato divenga prevalente, e poscia predominante politicamente nello stato”.

“Prevalente” e “Predominante”, cioè egemone. Un’indicazione di lavoro che sarebbe stata lungamente obliata nel ‘900.

Non che Labriola non vedesse la difficoltà di far accogliere il suo punto di vista. Di qui la sfiducia verso il ventilato Partito socialista. In una lettera a Turati del settembre 1891 aveva scritto: “la lotta di classe e il partito politico a base operaia son cose premature per l’Italia”. Ad Engels invece, del proposito di Turati (“un ottimo figliuolo”) di fondare il Partito socialista, scriveva nel maggio 1892: la sua “è la vecchia canzone bakuniana del mettere assieme una combriccola di spostati della borghesia, di malcontenti per temperamento, e di pessimisti per invidia, per formare un partito socialista che vorrebbe poi dire una consorteria di politicanti”. Un piccolo gruppo di intellettuali borghesi, pretenziosi e politicisti (si direbbe oggi).

Questa la critica di Labriola a Genova 1892: certo combattere l’anti-politica operaista, nel luglio 1892 aveva scritto a Prampolini: “bisogna finirla con la ragazzata dei partiti non politici, bisogna preparare con l’analisi e con lo studio la coscienza della lotta di classe”, ma l’alternativa non poteva neanche essere l’opportunismo di “una consorteria di politicanti”.

Per questo alla vigilia delle assise genovesi Labriola scrisse a Turati declinando l’invito a partecipare al Congresso.

Del resto certi limiti li vedeva anche Turati. Era consapevole della debolezza complessiva che si celava dietro la scissione cui lavorava. Anche per lui il socialismo italiano era ancora immaturo (tanto da fondare un partito “dei lavoratori”, non senz’altro socialista). Genova 1892 fu una forzatura, ma Turati era convinto che comunque il tentativo andasse fatto.

L’opinione di Turati emergeva chiaramente dalla ricostruzione che ne offre Labriola in una lettera di fine luglio 1982: “mi dite che il concetto di partito politico bisogna farlo entrare di straforo nella mente degli operai”. Ora proprio questa logica Labriola non accettava: “il concetto che il partito socialista è un partito politico non si fa entrare nella mente degli operai con un ordine del giorno. È una faccenda di esperienza, di tattica, di educazione, e d’istruzione, e per ciò di tempo”.

Dunque da una parte Turati, con la connaturata vocazione alle forzature, dall’altra un intellettuale marxista come Labriola convinto che certi ritardi avevano una precisa radice storica e politica: “l’orrore che gli operai provano per la politica è giustificato dalla condotta dei deputati socialisti”. Una critica decisamente politica. Così riassumibile: l’impolitico proletario aveva una origine politica. Essa risiedeva nella responsabilità di quei socialisti che ora volevano, appunto con una forzatura volontaristica, ovviare a difetti di cui erano responsabili (la propensione moderata, l’accomodamento con la borghesia ecc.). Forzare sul partito senza assumersi responsabilità avrebbe dato, in occasione del Congresso, solo “frutti bacati”.

Labriola denunciava insomma l’aporia del socialismo nascente.

Aporia nel senso che i socialisti riuniti a Genova condannavano l’antipolitica degli anarchici, ma dei sentimenti anti-politici i “deputati socialisti” erano responsabili in primis.

In una lettera ad Engels del 3 agosto Labriola riportava anche un’altra opinione del Turati, che avrebbe ammesso di voler agire in un contesto che egli stesso riteneva caotico e non omogeneo: “Turati, il più colto di tutti, mi dice che gli operai hanno una invincibile antipatia per la politica, che vogliono emanciparsi da sé (?), che non è il caso di abbracciar tutto un sistema, e anzi si deve accoglier tutto e tutti come viene viene”. Era la conferma che quello di Labriola non era solo e nemmeno in primo luogo, intellettualismo, era un chiaro e circostanziato giudizio politico: se si ammette, come Turati ammetteva, che “invincibile” è l’idiosincrasia dei proletari per la politica e che rimane forte il settarismo classista (“vogliono emanciparsi da sé”), che senso ha formare un partito che accolga “tutto e tutti come viene viene”? Questa confusione c’era dietro la scelta di un partito dei lavoratori e non dei socialisti.

Era vero il contrario: occorreva un partito socialista, non un partito del lavoro.

Lezione anche per l’oggi, direi.

Del resto Turati scontò in prima persona le conseguenze di determinate scelte. Durante il Congresso di Genova vide quanto difficile fosse tenere tutti dentro. I settori più di destra (Maffi, Lazzari, Balducci) restarono fermi ad un generico partito proletario (classista, ma non politico), non accettavano nemmeno il socialismo “di straforo” di Turati, coltivavano alla lor volta “l’illusione del partito grande, che accolga un po’ tutti” (di nuovo non socialista, ma genericamente ‘di sinistra’ come si direbbe oggi). Quanto agli anarchici se ne andarono per la loro strada.

Il socialismo italiano nasceva sotto il segno della scissione, della frattura. Una vera e propria stimmate per il movimento operaio italiano.

La frattura originaria orientò comunque il successivo corso delle cose. Nel 1893, al Congresso di Reggio Emilia, si poté passare da Partito dei lavoratori a Partito socialista dei lavoratori italiani per arrivare finalmente, nel 1895, al Partito socialista italiano.

Il passaggio dall’anti-politica alla politica può considerarsi a quel punto compiuto. Il superamento del politicismo (la forzatura di Genova) non fu invece altrettanto netto. Forse non era possibile.

Nel senso che chissà se è davvero possibile politica senza politicismo[1].


[1] Intento di questo scritto non è ‘trarre una morale’. Quella politica ognuno può trarla da sé. Certo i termini della questione, ieri come oggi, sono chiari (se non proprio gli stessi): un partito politico, un partito del socialismo, il rifiuto di astensionismo e anti-politica, ma rifiuto anche del politicismo, dell’“ecletticismo”, del trasformismo, del “tutto e tutti come viene viene”.