Riforma elettorale, riduzione del numero dei parlamentari e referendum-Roma, 18 novembre 2019

Intervento di Felice C. Besostri*

Gli argomenti del Convegno sono tra loro collegati e nel mio intervento il filo conduttore sarà quello dei rapporti tra Presidenza della Repubblica e Presidente del Consiglio dei Ministri in un momento di manifesta e profonda crisi delle nostre istituzioni e del complessivo ordinamento costituzionale, così come disegnato dalla nostra Carta fondamentale, che va piuttosto attuata che stravolta/deformata dalle modifiche costituzionali. Sia che si tratti di modifiche puntuali o organiche, come quella pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016 e sconfessata, perentoriamente, dal popolo italiano nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. In precedenza, la stessa sorte aveva subito nel referendum del 25—26 giugno 2006 quella pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 269 del 18 novembre 2005. Ora abbiamo di fronte una riforma puntuale, fatto in sé positivo rispetto a molteplici modifiche da approvate o respingere in blocco.

Per esempio, nel progetto di revisione Renzi-Boschi era positivo il controllo preventivo, ancorché non esclusivo alla luce dei principi della “storica” sentenza della Consulta n. 1/2014, delle leggi elettorali. Si sarebbe potuto evitare che il nostro Parlamento fosse rinnovato per 3 volte (2006, 2008  2013) con una legge elettorale, la n. 270 del 2005, parzialmente incostituzionale, ma nei suoi tratti qualificanti essenziali: premio di maggioranza e liste totalmente bloccate e una quarta volta nel 2018 con la 1egge n. 165/2017 di sospetta costituzionalità.

Si conviene che si tratta di un’incostituzionalità più discreta perché le liste corte, anzi troppo corte con effetti sconcertanti sul rapporto tra eletti ed elettori malgrado che il voto sia personale (art. 48 Cost.) e diretto (artt. 56 e 58 Cost.) sono sempre bloccate, ma il premio di maggioranza è nascosto ed eventuale. La decisione di rimetterla spetta ai Tribunali ordinari di Messina, Catanzaro e Roma, aditi con ricorsi per l’accertamento del diritto di votare secondo Costituzione, come quel che hanno condotto alle pronunce della Corte Costituzionale, la già menzionata n. 1/2014e la n. 35/2017 sulla legge elettorale n. 52/2015, per questo e per la sua stretta connessione con la revisione,  bocciata nel 2016, mai applicata.

Le due ultime revisioni costituzionali hanno in comune la riduzione del numero dei parlamentari elettivi dagli attuali 945 a 730 ed ora a 600, con una diretta conseguenze sulla composizione del Parlamento in seduta comune (che comprende anche i senatori a vita e di diritto) e delle maggioranze richieste per l’elezione di 5 giudici costituzionali (art. 135 c.1 Cost.), degli 8 membri laici del CSM (art.104 c.4 Cost.), del Presidente della Repubblica (art.83 c.1 Cost.) e la sua messa in stato d’accusa (art.90 c.2 Cost.). Si tratta di funzioni importanti per il nostro ordinamento costituzionale, peccato, col senno di poi, che non sia stata accolta la proposta dei costituenti proff. Mortati e Tosato di affidare la fiducia iniziale e la sfiducia al Parlamento in seduta comune, la possibile fisiologica diversità della composizione delle due Camere si sarebbe compensata e si sarebbe evitato l’abuso della questione di fiducia per accelerare l’iter legislativo. La preoccupazione per la ridotta composizione del Parlamento in seduta comune non riguarda le maggioranze rinforzate dei 2/3 o dei 3/5 dell’art. 3 della l.c. n. 2/1967 o dell’art. 104 c.4 Cost., ma la maggioranza assoluta per l’elezione del Presidente della Repubblica dopo il terzo scrutinio (art. 83 c.3 Cost.), ma soprattutto per la messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica, maggioranza che senza le opportune cautela rappresenta potenzialmente una grave alterazione negli equilibri  nei rapporti tra organi costituzionali posti ai vertici del nostro ordinamento, anche se il giudizio sarà affidato alla composizione speciale della Corte Costituzionale prevista dall’art. 135 c. 7 Cost..

Infatti, la maggioranza assoluta per l’elezione del Presidente della Repubblica è aumentata dalla presenza dei tre delegati per ogni Regione, uno per la Val d’Aosta, eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze, quindi 58 componenti aggiuntivi.

Questa correzione incide per il 5,75% sulla composizione attuale, nella revisione Renzi-Boschi in considerazione della regionalizzazione del Senato i delegati regionali non erano più previsti nell’assemblea presidenziale. In compenso aumentava l’incidenza  diretta o indiretta dei consigli regionali, cui spettava la nomina di 96 senatori nel loro seno o tra i sindaci della loro Regione o  Provincia autonoma, che avrebbero rappresentato il 13,15%  del Parlamento in seduta comune. Tutti i consiglieri regionali (tranne i consiglieri della Provincia autonoma di Bolzano) sono eletti  grazie a leggi regionali con,  di norma, un premio di maggioranza pari al 60% dei seggi, indipendentemente dai voti delle liste collegate al candidato presidente eletto e alla stessa partecipazione alle elezioni. Nel 2014 in una elezione regionale l’affluenza fu pari al 37,71 % degli aventi diritto. Con la revisione concernenti le “Modifiche degli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione  in  materia di riduzione del numero dei parlamentari”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana -serie generale – n. 240 del 12 ottobre 2019, l’incidenza dei delegati regionali sarebbe del 8,81, generando preoccupazione per la centralità del Parlamento, tanto che alla Camera è iniziata la discussione del pdl costituzionale A.C. n. 2238 “Modifiche agli articoli 57 e 83 della Costituzione, in materia di base territoriale per l’elezione del Senato della Repubblica e di riduzione del numero dei delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica”, primo firmatario l’amico, stimato e competente in materia elettorale, on. Federico Fornaro.

Per quello che qui interessa il pdl, riformulando il primo periodo del secondo comma dell’articolo 83 Cost., riduce a due i delegati regionali sempre “in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze” e l’incidenza percentuale sull’assemblea presidenziale ridiscende al 5,92%, in linea con l’attuale 5,75%: ottimo, se il problema principale fosse la centralità del Parlamento, pertanto ad una riduzione del 36,50% dei membri elettivi fa seguito una riduzione del 33,33% dei delegati regionali. Tuttavia, in assenza di proposta di una nuova legge regionale, la madre di tutte le leggi  collegate alla riduzione del numero dei parlamentari, la riforma  dell’art. 57 Cost del pdl Fornaro  e l’A.S. n. 1440 “Modifica all’articolo 58 della Costituzione, in materia di elettorato per l’elezione del Senato della Repubblica”, già approvato, in sede di prima  deliberazione, dalla Camera dei deputati il 31 luglio 2019, andrebbero meditati e coordinati in un disegno coerente di modifica della legge elettorale per la Camera dei  deputati  e del Senato della Repubblica, per evitare gli effetti perversi di una revisione costituzionale e di una legge elettorale funzionale a quella revisione, come era il caso della precedente, ma fallita, revisione organica e la legge n. 52/3015, l’Italicum.

La vigente legge 51/2019, che consolida la legge n. 65/2017 è stata pensata in vista della prevista riduzione del numero dei Parlamentari, che era parte degli accordi di programma del governo precedente, come di quello in carica. Una riduzione, si tratta di un’opinione strettamente personale, era opportuna: il rapporto tra parlamentari ed abitanti era tra i più bassi, cioè meno abitanti per parlamentare, se confrontato con l’Assemblea Nazionale francese, il Bundestag tedesco, la Camera dei Comuni del Regno Unito o la Camera dei Deputati spagnola, ora è il più alto tra quelli citati. Siamo passati da un deputato ogni 96.171. abitanti e da un senatore ogni 192.342 a un deputato ogni 151.617 e un senatore ogni 303.233 abitanti residenti in Italia secondo il censimento 2011, il censimento 2021 confermerà una diminuzione della popolazione. Per la messa in stato d’accusa con il parlamento attuale occorre che si pronuncino a favore 476 membri del Parlamento eletti da un corpo elettorale diversificato nell’elettorato attivo e il Senato a base regionale. Statisticamente sui numeri più grandi sono più frequenti comportamenti differenziati ovvero che un maggior numero di parlamentari prenda su serio, che ciascuno di loro, non il Parlamento, rappresenti la Nazione (art. 67Cost.), cioè il popolo, che detiene la sovranità e che la funzione pubblica vada esercitata con disciplina, cioè rigore personale, e onore (art. 54 Cost.) qualità necessarie per decidere se mettere in stato d’accusa il Presidente della Repubblica “per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”(art.90 Cost.).

Con la revisione Renzi-Boschi e l’Italicum il capo politico della lista con il 40% dei voti al primo turno ovvero vincitrice del ballottaggio tra le prime due si sarebbe assicurato comunque 340 seggi sui 730/731[1]  del Parlamento in seduta comune, più una quota dei 12 della circoscrizione estero eletti alla proporzionale, per raggiungere la maggioranza assoluta di 366 bastavano 22/24 voti, di facile reperimento tra i consiglieri regionali e i 21 sindaci divenuti senatori, con elezione di secondo grado quindi frutto di accordi a tavolino tra le oligarchie partitiche e dei capigruppo regionali. Con 600 parlamentari elettivi  la maggioranza assoluta del Parlamento in seduta comune per la messa in stato d’accusa  scende a 304/305. Se il Senato e la Camera sono eletti con una legge elettorale uniforme anche del solo voto attivo (A.S. 1440), che preveda liste bloccate, soglie d’accesso nazionali, premi in seggi a coalizioni, senza più vincolo  di programma e capo politico comune e l’eliminazione della base regionale per il Senato, ed in futuro l’abrogazione del divieto di mandato imperativo, chi vince le elezioni politiche si assicura il controllo del Parlamento in seduta comune. Pertanto dal Presidente dipenderà di fatto, a prescindere dal limitato correttivo dei delegai regionali ridotti a due,  il controllo dell’elezione del Presidente della Repubblica e ancor più la messa in stato d’accusa del Capo dello Stato, anche se non rappresenta la maggioranza del corpo elettorale, cioè del popolo che esercita la sovranità che gli appartiene, nella forma precipua in una democrazia rappresentativa con forma di governo parlamentare. La Presidenza della Repubblica, come istituzione, anche senza tenere conto del galantuomo al Quirinale, per le funzioni, che la Costituzione assegna al Capo dello Stato, non può tollerare le pressioni, pur di carattere allusivo di un Presidente del Consiglio padrone del Parlamento in seduta comune.

La funzione di garante della Costituzione e della cooperazione, rispettosa degli equilibri, tra i poteri dello Stato e gli organi di rilevanza costituzionale non potrebbe più essere assicurata. Non c’è un solo modo per evitare una tale situazione per quanto puramente ipotetica. La prima condizione è che il Parlamento in seduta comune sia realmente rappresentativo del corpo elettorale, delle sue articolazioni e del suo pluralismo: non è un accidente che il nostro art. 67 Cost. affidi ad ogni singolo parlamentare la rappresentanza della Nazione e non al Parlamento nella sua totalità. La sua posizione esce rafforzata dalle implicazioni del’ Ordinanza n. 17 /2019, che recepisce, 110 anni dopo la sua enunciazione, la convinzione di Georg Jellinek che il singolo parlamentare sia un organo dello Stato e, quindi, che possa sollevare un conflitto di attribuzioni: vedremo presto proprio in materia attinente all’art. 57 Cost. l’effettiva portata dell’ordinanza n. 17/2019. Nessuna legge elettorale è in sé perfetta, le elezioni spagnole di domenica scorsa, come le precedenti del 2015, del 2016 e dell’aprile 2019 hanno corroso il mito dell’Hispanikum, che pure per decenni ha assicurato governabilità ed alternanza. Sono convinto che una legge proporzionale sia la risposta giusta alla drastica riduzione dei parlamentari, per non compromettere del tutto la rappresentatività del Parlamento e allo stesso tempo tutelare la Presidenza della Repubblica e l’interesse della Nazione in ordine all’art. 90 Cost.. Soltanto un Parlamento plurale e, rappresentativo potrebbe ritornare sulla decisione, non una nuova maggioranza assoluta frutto di artifici e situazione contingente.

Il combinato disposto di legge n. 165/2017 e 51/2019, consente nel caso di una sola lista o coalizione superiope al 30% e omogeneamente distribuita sul territorio nazionale, di avere la maggioranza assoluta alla Camera e al Senato, quindi nel Parlamento in seduta comune, se con l’approvazione del pdl costituzionale A.C. 2238 e dell’A.S. 1440 la legge elettorale vigente i seggi non assegnati  in una circoscrizione potessero aemigrare in altra circoscrizione anche fuori Regione: il precedente c’è già con un seggio senatoriale siciliano approdato in Umbria, una Regione già beneficiaria dell’art. 57 c. 3 Cost. e che, quindi, elegge già almeno 2 senatori in più di quelli che le spetterebbero in base alla sua popolazione.[2] L’intervento opportuno per mettere in sicurezza il sistema sarebbe quello di aggiungere o inserire l’aggettivo “proporzionale “a “personale ed eguale, libero e segreto” nell’art.48 Cost..  Gli interventi minimi consentire, anche senza incentivarlo, il voto disgiunto tra maggioritario, abolire le coalizioni o vincolarle ad un programma e capo politico comune, escludere il computo dei voti delle liste coalizzate, abbassare le soglie d’accesso o meglio escludere soglie nazionali a favore di soglie circoscrizionali/regionali anche per consentire  uguale trattamento alle liste espressione di lingue minoritario non solo nelle ragioni a statuto speciale e a liste con programmi specifici di ambito circoscrizionale/regionale, in base ai principi desumibili dalla Sentenza del Tribunale Costituzionale Federale tedesco, cioè di un ordinamento omogeneo  al nostro ( sent. 1/2014), la sentenza cosiddetta “Drei Länder Quorum[F1] (BVerfGE 111, 382).

Altra soluzione al problema prospettato elevare le maggioranze qualificate ai tre quinti in analogia ai quorum prevosti per i giudici costituzionali e i membri laici del CSM per un certo numero di scrutini successivi al terzo per l’elezione del Presidente della Repubblica ed in via p3rmaneente per la sua messa in stato d’accusa. Viene proposto da 8 regioni un referendum abrogativo, che se ammesso, ci sono dubbi forti n proposito, renderebbe tutti i seggi del Parlamento attribuibili con sistema maggioritario a turno unico. Vi è un modo per tenere conto di questa eventualità ed, evitare le conseguenze negative, compresa quella che una forza politica di maggioranza relativa, omogeneamente presente sull’intero territorio nazionale, conquisti la maggioranza assoluta od addirittura i due terzi dei seggi: modificare l’art. 14 dpr 361/957 s.m.i. nel senso 9il monopolio dei partiti e dei movimenti politici organizzati il monopolio della presentazione di candidati e liste di candidati, almeno finché non si dara attuazione con una legge organica all’art. 49 Cost.. Se deve essere maggioritario, allora sarebbe meglio un sistema rinominale di genere con doppio voto , anche a candidati di liste diverse  ad un candidato di genere maschile e femminile. Potrebbe ridursi il pluralismo politico, ma almeno si avrà un riequilibrio della rappresentanza di genere, un obiettivo dell’art. 51 Cost. ed una sorta di ballottaggio contestuale.

* Felice C. Besostri, avvocato, già ricercatore confermato presso l’Università degli Studi di Milano, Scienze politiche, Diritto Pubblico Comparato.


[1]   Dipende dal numero dei senatori di diritto in carica-

[2][2] Abitanti censimento 2011 884.268 : 192.342= 4,59             


 [F1] (BVerfGE 111, 382).