«La vanità del giovane studioso induce talvolta ad accettare incarichi impossibili: ne nascono penosi momenti, spesso passati riscrivendo, limando, indugiando intorno a falsi problemi, letture ardite, questioni causidiche, per le quali l’ipertrofia dell’ego è troppo elevata da poter tollerare una rinuncia.

La prima volta che mi arresi fu nel 1993. La richiesta, che mi veniva dal titolare della Presidenza dell’organo collegiale di cui tenevo la segreteria, era apparentemente innocua: raffrontare le guarentigie del parlamentare e del magistrato, in quanto ambedue promananti dal fatto di agire “in nome del popolo italiano”. Procedo secondo i canoni consueti: ipotiposi, indi comparazione. Ma c’è qualcosa che non gira: da qualunque punto li si veda, i “privilegi” non sono omogenei. Non si può confrontare l’inamovibilità del giudice con una carica elettiva, soggetta per definizione a rinnovo. Né l’autorizzazione a procedere (che esisteva per il parlamentare) è comparabile con l’obbligo di passare alla sede di Corte d’appello più vicina, quando il procedimento concerne un magistrato (tra l’altro, sia come imputato che come parte offesa). I princìpi sottesi ai due istituti erano diversi: una concezione delle guarentigie come “attributo” del titolare di una carica pubblica, lungi dal costituire un tertium comparationis, era di limitatissimo valore euristico, perché le cariche erano diverse e non soccorreva, affatto, il fuorviante riferimento al popolo.
Passò la legislatura, passò il Presidente e non ci pensai più, se non nei termini di una sconfitta intellettuale, che giustamente mortifica la superbia del chierico. Poi Carlo Mezzanotte depositò la sentenza n. 379 del 1996, e ne fui folgorato: la Corte costituzionale – pure criticatissima per il non liquet imposto alla magistratura, in quella circostanza, sui deputati pianisti – per la prima volta affermava che “la grande regola dello Stato di diritto” vigeva anche all’interno dell’ordinamento settoriale delle Camere. La capacità qualificatoria del regolamento parlamentare non promanava più da una sovranità “geografica”, ma dalla funzione svolta: la sentenza Mengoni del 1988 non era più una fattispecie limitata all’insindacabilità, ma diveniva l’architrave procedimentale per rendere “giustiziabili” gli ambiti, in cui il regolamento decampa dal nesso funzionale.

Sono passati, da allora, quasi vent’anni, nei quali molta acqua è passata sotto i ponti del Tamigi, della Senna e, con minore impeto, anche del Tevere: gli sviluppi del parlamentarismo straniero confermano queste intuizioni ed è per questo che vengono studiate nel mio libro “Lo scudo di cartone”, edita da Rubbettino, maggio 2015. È a chiusura di questo ciclo, che si colloca la trasformazione dell’autoregolamentazione in diritto politico: non a caso, quindi, la titolazione è affidata all’aforisma sulle immunità parlamentari, intentato dal mio ultimo, stimato Presidente. Quando, all’abbandono dell’organo collegiale di cui tenevo la segreteria, ho ripercorso con Marco Follini le molte, complesse vicende della nostra collaborazione, il suo giudizio su un sistema immunitario – vissuto, al giorno d’oggi, senz’anima e senza consapevolezza dei profondi princìpi che ne giustificarono la creazione, né ricerca di nuovi princìpi che ne giustifichino il mantenimento o il rinnovo – fu peggio che crudele: fu argutamente dissacrante.

G. Buonomo, Lo scudo di cartone, Rubbettino, maggio 2015, p. 249.

LOCANDINA

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Lunedì 8 giugno 2015, alle ore 17, presso la Camera dei deputati, Aula dei Gruppi parlamentari, in via Campo Marzio n. 78, Roma, avrà luogo la presentazione pubblica (v. locandina allegata) del volume di Giampiero Buonomo “Lo scudo di cartone”, Rubbettino, 2015.
Per l’accesso alla sala degli invitati è necessario accreditarsi, entro le ore 12 di venerdì 5 giugno, con una risposta alla presente mail ovvero alla casella postale elettronica: scudodicartone@outlook.it oppure telefonando al numero 0667064314.
Si ricorda che per gli uomini è obbligatorio indossare la giacca.