«Mi sorprende rileggermi a distanza di anni,  9 per la precisione, e trovare che sono ancora attuali le riflessioni e denunce svolte allora. Non è motivo di soddisfazione: al contrario significa che si son fatte prediche nel deserto e non si è riusciti a modificare anche di poco  la situazione. Lo ripubblico ora perché l’indignazione a corrente alternata ci caratterizza, pare che i bambini palestinesi abbiano un valore diverso da quelli yazidi o cristiani orientali. Nella prima fase della rivolta siriana contro Assad il silenzio è stato pesante a sinistra.

“La sinistra e i kamikaze”

Quando, recentemente, in Francia si riparlò dei latitanti – e in particolare in occasione dell’estradizione di Cesare Battisti -, riemerse la questione del rapporto tra la sinistra, la violenza e il terrorismo. Il tema venne rievocato anche a proposito dell”esecuzione’ di Baldoni, nonché dei terrificanti avvenimenti di Beslan nella repubblica dell’Ossezia Settentrionale.

Bisogna subito premettere che, su questi argomenti, una discussione non sarà mai puramente razionale; le emozioni sono inevitabili e gioca, altresì, la storia personale e politica dei soggetti interessati.

Malgrado la suggestione del messaggio gandhiano e della sua stessa efficacia, non sono mai riuscito a essere conseguentemente a favore, sempre e comunque, della nonviolenza. Sono inoltre convinto che tanto meno vi farei ricorso, in termini razionali, qualora fossi politicamente persuaso della giustezza di rispondere in modo violento, e anche con l’uso delle armi, alla privazione della libertà o alla negazione dei diritti umani in generale. La resistenza partigiana al nazifascismo o l’insurrezione del ghetto di Varsavia sono due esempi tra i tanti che potrei offrire. In ogni caso il ricorso alla violenza non può essere se non eccezionale: limitato e proporzionato, cioè, alla violenza che si vuole contrastare o ai valori che si vuole difendere.

Nel movimento operaio e socialista, quando si discuteva della strategia per la conquista e il mantenimento del potere, la distinzione era netta: la violenza era dei rivoluzionari, la nonviolenza dei socialisti democratici. Il modello bolscevico è uscito sconfitto dalla storia: secondo la bella espressione di Leonhard, la rivoluzione mangia i suoi figli, oltre che prendersela con i ‘nemici di classe’. Ma il modello socialista democratico non ha saputo, con altri mezzi, costruire una società socialista; società più giuste ed egualitarie, certamente, quando è riuscito a restare al potere per qualche decennio.

Ricordo una battuta del vecchio Nenni in risposta ai critici delle società scandinave: che era “meglio morire di noia, piuttosto che di fame”! Tuttavia, anche tra i rivoluzionari le critiche al terrorismo, perlomeno nella sua versione individualistica e anarchica, sono sempre state forti mentre veniva praticato il terrore di massa.

La violenza e i suoi metodi, compresi quelli terroristici, sono stati riabilitati dalle lotte di liberazione nazionale e anticoloniali. Penso, per esempio, alla guerra d’Algeria e a quella del Vietnam, che tanta simpatia hanno suscitato a sinistra. Tutti o quasi tutti ritenevamo che una causa giusta giustificasse non solamente la lotta armata ma anche l’impiego del terrorismo, con le bombe fatte deflagrare nei locali o negli edifici pubblici (ma mai, se ben ricordo, nelle scuole o sugli autobus). In ogni caso, chi faceva ricorso a questi metodi cercava il più possibile di colpire obiettivi mirati e non vi era la logica del martirio alla kamikaze. Tuttavia, se dalla storia non si impara, la stessa è destinata a ripetersi finché la lezione non sia stata appresa. La giustezza della causa e l’uso controllato del terrore non hanno impedito che la vittoria contro le potenze coloniali, o contro le truppe di occupazione straniere e i loro complici corrotti, producesse non società più giuste e più libere ma regimi di oligarchie autoritarie, burocratiche e poliziesche e, per di più, non aliene dall’arricchimento personale. Quando, peraltro, non vi erano degenerazioni borghesi, era ancora peggiore l’orrore del delirio egualitario e del mito dell’uomo nuovo, come nel caso del regime comunista integrale nella Cambogia di Pol Pot.

In fin dei conti – ce lo ricorda Silone nel romanzo Il seme sotto la neve – la corruzione rende umane le leggi (senza che ciò ne costituisca una giustificazione), e in molti Paesi totalitari è stata il salvacondotto per l’espatrio, la libertà, la vita.

Nel 1976, quando con Lelio Basso si adottò la Dichiarazione di Algeri come Carta dei Diritti dei Popoli, nessuno di noi a sinistra poteva immaginare (o forse non eravamo pronti a vedere) che l’Algeria, campione di Bandung e del Terzo mondo, nonché terra d’asilo di rivoluzionari e libertadores di ogni continente, dieci anni dopo avrebbe represso nel sangue la rivolta del pane di Algeri, soppresso le elezioni e affrontata la lotta a uno dei più spietati e barbari movimenti fondamentalisti islamici, con esecuzioni di massa e una guerra sporca come quella delle truppe coloniali francesi contro il Fronte nazionale di liberazione dell’Algeria. La repressione dei berberi e delle loro rivendicazioni linguistiche e culturali è stata condannata da ben poche voci a sinistra: una sinistra di solito pronta, e giustamente pronta, a difendere l’identità degli indios e addirittura dei baschi, non importa se inquadrati nel terrorismo dell’Eta, o dei cattolici nordirlandesi dell’Ira. Una sinistra disposta, su un piano più tranquillo, persino a riscoprire, prima dei padani di Bossi, la musica celtica insieme con i movimenti indipendentisti brètoni. I miti della rivoluzione, specialmente se vittoriosa come a Cuba con Castro o in Nicaragua con i sandinisti (per il Salvador e il Guatemala ci si è obiettivamente spesi meno), hanno accompagnato un po’ tutta la sinistra europea, anche quella più timidamente riformatrice. Senza i miti della lotta armata e della teologia della liberazione (sia ben chiaro, non intendo negare nulla al valore ecclesiale positivo di quest’ultima come rottura della compromissione della Chiesa cattolica con i regimi reazionari), le Brigate Rosse non sarebbero cadute nella trappola di padre Girotto, il famoso ‘fratello mitra’.

A sinistra bisognerebbe aprire, prima possibile, il capitolo doloroso del conflitto israelo-palestinese, tenendo presente che la giusta aspirazione dei palestinesi a un’identità politica statuale e alla fine dell’occupazione israeliana di Gaza e della Cisgiordania ha fatto chiudere gli occhi su una strategia del terrore indiscriminato, con forme di appoggio sconfinanti nel più trito antisemitismo, comunque travestito. Al di là di tutto la sinistra, in particolare quella europea, ha rinunciato a giocare il suo ruolo politico di forza rispettata dalle parti in lotta, in virtù di un netto rifiuto dell’antisemitismo e di un coerente sostegno alla liberazione dei popoli oppressi: infatti, invece di essere forza di dialogo e di pace ha preferito dividersi e schierarsi acriticamente con una delle due parti in causa. Un merito deve essere dato, tuttavia, all’Internazionale Socialista, nel cui seno convivevano i laburisti israeliani, compresi i sionisti socialisti del Mapam e l’Olp.

Gli accordi di Oslo furono sottoscritti con i laburisti norvegesi al governo e grazie a un ministro degli Esteri socialista, già dirigente dell’Unione Internazionale della Gioventù Socialista.

Sono tanti, tantissimi i socialisti vittime della violenza e del terrore, sia a opera degli squadroni della morte in America latina, come Hector Oqueli, sia del terrorismo libico come l’ex Segretario generale dell’Internazionale Socialista Berndt Carlsson caduto nel cielo di Lockerbie, o dell’Eta, come Fernando Mujica Herzog ed Ernest Lluch.

Compagni socialisti e comunisti sono stati vittime della lotta armata in Italia. Fra i tanti voglio ricordare Guido Rossa e Walter Tobagi: una catena di sangue che è arrivata sino ai Ds con l’omicidio dell’avvocato D’Antona. Eppure, appena si discute di violenza e di terroristi, parte subito l’accusa che a sinistra ci siano i complici e i protettori degli assassini, magari soltanto perché si chiede la grazia per Sofri e Bompressi e si avanzano dubbi su processi, celebrati nell’emergenza e prima della riforma costituzionale sul giusto processo, senza peraltro delegittimare, per questo, le sentenze di condanna passate in giudicato.

È chiaro che vi è un tentativo di introdurre anche nelle nostre teste l’emergenza terrorista per giustificare le limitazioni della libertà e di altri diritti fondamentali dell’uomo. Si dice: soltanto la sicurezza deve importare, il dubbio e la critica dei cittadini indeboliscono i governi e perciò, oggettivamente, aiutano il terrorismo. Sono slogan che abbiamo sentito ripetere sino alla nausea dopo la strage di Beslan nell’Ossezia Settentrionale.

Di fronte all’esecuzione di Baldoni e di dodici lavoratori nepalesi, Barenghi – la ‘iena’ del Manifesto – ha lanciato una provocazione sostenendo che è meglio un Iraq occupato dagli americani che nelle mani dei tagliatori di gole. La provocazione è palesemente paradossale, ma ogni paradosso contiene una parte di verità, altrimenti sarebbe una pura assurdità. È chiaro che chi è contro la guerra in Iraq non può essere a favore dell’occupazione americana, ma un conto è mobilitare le opinioni pubbliche per ottenere il ritiro delle truppe, e altro è auspicare che gli americani siano sconfitti da terroristi e tagliagole: hic Rhodus, hic salta. Non ci si può rifugiare altrove dicendo, sia pure razionalmente, che si è contro l’occupazione americana e contro i terroristi. La sinistra deve fare politica, cioè deve compiere delle scelte e chiedersi chi sono ora i suoi interlocutori in Iraq, in grado di preparare un’alternativa democratica (e socialista) a Saddam.

Bisogna avere la memoria corta o una grande capacità di rimozione per dimenticare che, con la scusa che nella sigla del partito Baath era contenuto il richiamo al socialismo, esponenti baathisti erano ospiti dei congressi del Pci e del Psi. Né a scusante vale il fatto che Saddam fosse sostenuto dalla Cia e dall’Occidente quando era il bastione antikhomeinista, né che abbia potuto massacrare sciiti e curdi, anche durante e dopo la guerra del Golfo, con il beneplacito di Bush senior. Il fatto è che dalla sinistra ci si aspetta un diverso atteggiamento, sia etico che politico. La corruzione, per esempio, ha effetti più devastanti a sinistra che a destra, perché la sinistra deve essere differente. Se a sinistra si hanno gli stessi comportamenti della destra, perché si dovrebbe stare a sinistra?

Dalle colonne dell’autorevole Corriere della Sera l’ineffabile Galli dalla Loggia ci dice che, di fronte agli integralisti islamici, dobbiamo essere solidali con i governi perché rappresentano i loro popoli nel bene e nel male. La legittimità di un governo è questione che riguarda i rapporti tra gli Stati e le organizzazioni internazionali, e non condiziona il nostro giudizio sui fatti del mondo, che deve potersi esprimere in totale libertà. E l’opinione che un governo, il proprio o l’altrui, abbia sbagliato e stia sbagliando rientra a pieno titolo in quest’àmbito di libertà.

Chiarito che la responsabilità delle teste mozzate, delle gole tagliate, dei sequestri, delle uccisioni di donne e bambini e di civili è dei terroristi e dei gruppi estremisti islamici, e che per tale ragione questi sono nostri nemici – quale che sia la causa che difendono e quale che sia il motivo del loro agire -, non si capisce perché non ci si debba interrogare sull’efficacia della risposta e dei mezzi di contrasto, chiedendoci se, per esempio, l’intervento a Beslan, per la sua improvvisazione, non abbia aumentato, e in che misura, il numero delle vittime. Proprio il precedente del teatro Dubrovska non può essere archiviato soltanto perché Putin è stato “democraticamente” eletto.

Il ripudio del terrorismo non può diventare complicità delle violazioni dei diritti umani in atto in Cecenia da oltre un decennio, tutto sommato nell’indifferenza dell’opinione pubblica, anime belle della sinistra comprese (fatte le dovute eccezioni, per l’Italia, dei radicali, di Adriano Sofri e di individui sparsi nei partiti di sinistra). Sarebbe un errore ondeggiare sui diritti umani (che ne pensiamo di Cuba, per esempio?), pur con tutti i distinguo in relazione al grado di amicizia del loro capo di governo o di Stato con il nostro Berlusconi. Una sinistra degna del suo nome – il che significa impegno per i deboli e i diseredati di tutto il mondo – non può nemmeno rinunciare alla sua autonomia di giudizio inseguendo i fatti soltanto quando diventano notizie, anzi immagini. I 42 mila bambini ceceni uccisi in questi dieci anni dai bombardamenti e cannoneggiamenti delle truppe russe non giustificano l’uccisione di un solo bambino osseto, ma sono un tremendo macigno per le nostre coscienze e per la nostra credibilità politica. La Fallaci può occuparsi del solo estremismo islamico e dimenticare i fanatici induisti che incendiano le moschee e organizzano pogrom di mussulmani in India; noi no.

I nuovi crociati possono dimenticare che, fino a oggi, i fanatici islamici hanno ucciso più mussulmani di qualsivoglia credente di altra fede; noi no. È giusto chiamare all’unità nazionale, ma come ha fatto la Francia, coinvolgendo la sua comunità islamica. L’unità si può fare nel rifiuto della violenza e per la dignità della persona, non come ci chiede Pera, in nome dell’Occidente (ci siamo dimenticati di Hitler con il suo Gott mit uns?) e dei valori cristiani (quali? le crociate? la santa Inquisizione? i processi alle streghe? le conversioni forzate? gli stermini di albigesi e valdesi?). Al Qaeda parla di lotta ai crociati: vogliamo per caso dare ragione a Osama? La sinistra deve essere molto chiara nelle sue prese di posizione, ma non soltanto con articoli di giornale o dichiarazioni televisive dei suoi leader; è a livello capillare nei luoghi di lavoro, di educazione e di svago che si forma l’opinione pubblica.

Dopo lo scempio di Baldoni e dei dodici nepalesi, v’è stato il sequestro delle due cooperanti appena finito l’orrore dell’Ossezia: lo scivolamento dell’opinione pubblica verso l’islamofobia è un pericolo concreto. Tale pericolo non si scongiura con la litania dei cui prodest o con le dietrologie non verificabili, non diamo per scontato che dietro il sequestro delle nostre due cooperanti ci siano gli americani o gruppi iracheni loro alleati. I dubbi si risolvono chiedendo a gran voce un’inchiesta indipendente, come hanno fatto anche le famiglie di Beslan.

Un americano tranquillo di Graham Greene lo abbiamo letto in molti, o abbiamo visto il film. In Italia non siamo riusciti a chiudere i conti con piazza Fontana e piazza della Loggia, e perciò non ci meraviglieremmo di scoprire provocazioni o coperture al terrorismo di chi dovrebbe combatterlo. Ma non rifugiamoci dietro questo alibi per non prendere le distanze in modo netto dal fanatismo e dal terrorismo.

Tuttavia la condanna della violenza e del terrorismo, senza se e senza ma, non può diventare complicità con l’oppressione e la violenza istituzionale; e pertanto ai popoli oppressi si deve fornire un’alternativa alla disperazione suicida. L’esempio viene dalla lotta di Timor orientale, già colonia portoghese che l’Indonesia ha occupato con un programma di genocidio. La liberazione di Timor Est è stata un successo: ora è uno Stato indipendente e i suoi leader sono stati insigniti del premio Nobel per la Pace. Occorre un sistema internazionale per la protezione dei diritti umani sul modello della Corte europea dei diritti dell’uomo. In altre parole, bisogna internazionalizzare i conflitti e le violazioni dei diritti umani e agire per la trasparenza. Se ci sono interessi strategici o economici negli interventi militari, essi devono essere enunciati/evidenziati: spetterà alla pubblica opinione giudicare. L’oppressione di un popolo, fosse anche il proprio, deve essere trattata come crimine contro l’umanità e delitto imprescrittibile, soggetto al Tribunale penale internazionale, alla stessa stregua del terrorismo. I proventi dei furti e della corruzione dei dittatori devono essere sequestrati e non protetti dal segreto bancario. In casi come quello ceceno, si deve riconoscere a un popolo soggettività di diritto internazionale per poter accedere alle corti internazionali, ovvero a un sistema di tutela del tipo ombudsman. Per la tutela dell’ambiente, per esempio, alcuni ordinamenti hanno concesso la legittimazione in giudizio alle associazioni ambientaliste. I diritti dell’uomo hanno la stessa importanza dell’ambiente, e le Ong di tutela possono ben avere lo stesso riconoscimento.

Se lo stabilire questi principi a livello internazionale pare una prospettiva di lungo periodo, nulla impedisce che un singolo Stato dichiari nel proprio ordinamento che la violazione dei diritti dell’uomo, da chiunque e dovunque commessa, costituisce reato. D’altra parte, del tutto unilateralmente, gli Stati Uniti hanno stabilito una giurisdizione universale, ammettendo azioni contro istituti bancari svizzeri promosse da discendenti di ebrei europei, oppure sequestrando un capo di Stato a Panama e giudicandolo per reati comuni a Miami oppure, ancora, istituendo tribunali speciali per i terroristi di qualsivoglia nazionalità catturati in Afghanistan, anche quando costoro dichiarano d’essere stati al servizio di un governo apparentemente legittimo e, fino a pochi anni prima, internazionalmente riconosciuto da altri stati membri della comunità internazionale. Quando oppressori di popoli e terroristi fossero messi sullo stesso piano, sarebbe più facile sconfiggere il terrorismo.

Il percorso indicato presuppone un sistema di informazione libero e indipendente, che dia uguali possibilità di accesso ai popoli e alle comunità che lamentino oppressione e discriminazione.

Deve cessare il triste e scandaloso ‘privilegio’ di chi ha diritto alla trasmissione della propria morte in diretta non per ragioni di pietas bensì di audience, rispetto ai morti ammazzati e ai torturati in segreto. Quanta strada abbiamo da percorrere e quanti compiti da svolgere come sinistra o, semplicemente, come democratici, senza bisogno di ripetere vecchi slogan del tipo “né con lo Stato né con le Br”, o nuovi come “né con i tagliagole né con l’occupante americano”. Quando alla vigilia della prima guerra mondiale i partiti del movimento operaio, quelli che cantavano “non più frontiere / stanno ai confini rosse bandiere”, si nazionalizzarono votando i crediti di guerra, non ebbero miglior sorte quelli che se ne uscirono con un “né aderire né sabotare”. Il ‘né, né’ non va bene. Tocca alla sinistra dire evangelicamente – quando si tratta di violenza, terrorismo, violazione dei diritti della persona e dei popoli – i ‘sì, sì’ e i ‘no, no’ che ci vogliono.

Felice C. Besostri, avvocato amministrativista; condirettore dell’Avvenire dei lavoratori di Zurigo; già Senatore dei Ds, da oltre trent’anni membro attivo della Fabian Society.

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