«Le sconfitte elettorali dei partiti del PSE non hanno una spiegazione univoca. Alfred Gusenbauer, già cancelliere socialista austriaco (2007-2008) è il presidente del Programma di ricerca della FEPS (Foundation for European Progressive Studies) “Next Left”.

La FEPS raggruppa più di 40 fondazioni politiche e think tanks della UE e le sue attività sono co-finanziate dal Parlamento Europeo.

La Fabian Society, organizzazione collaterale del Labour Party, e la FEPS hanno, quest’anno, editato insieme una pubblicazione dal titolo “Europe’s Left in the Crisis. How the next left can respond” (Sinistra d’Europa nella crisi. Come la sinistra prossima può rispondere).

Già il titolo merita una riflessione, poiché si usa la parola “sinistra” invece che socialismo democratico, quando la riflessione ricorda il famoso libro di Eduard Bernstein (1850-1932) “I presupposti del Socialismo e i compiti della socialdemocrazia” pubblicato nel 1899 e che diede l’avvio a uno dei più vasti dibattiti all’interno della cosiddetta Seconda Internazionale, conosciuto appunto come Bernsteindebatte.

“Nella crisi” non ha lo stesso significato di “in crisi”, ma di questo in realtà si parla, perché non ci sono ricette per come uscire dalla crisi, ma piuttosto un’attenzione sui valori minacciati dalla crisi e che dovrebbero essere invece preservati.

Il Segretario Generale della FEPS presenta il libro partendo dalle parole pronunciate da Willi Brandt quando si inginocchio davanti al monumento che commemora l’insurrezione del Ghetto di Varsavia.

“La pace, come la libertà, non è uno stato originario, che esiste dall’inizio; noi dobbiamo farlo nel più vero senso della parola”.

In un’epoca di grande ansia, intensificata da tutta la miseria umana portata dall’ultima crisi economica, i progressisti hanno il dovere storico di ristabilire sé stessi come i rappresentanti, democraticamente legittimati, del popolo.

La missione dei progressisti – per Gusenbauer – è di stare per l’uguaglianza, l’equità, la libertà e la solidarietà per porli nel nucleo centrale di un nuovo contratto sociale: è necessario restaurare la fiducia in questi valori in tempi difficili, quando sono stati oscurati dalla paura e da un gretto individualismo.

Niente da eccepire, ma non basta, se alla denuncia non segue la proposta: è questo il limite del documento sulla politica economica del vertice di Atene del PSE dal titolo “Siamo nelle mani sbagliate”. L’unica proposta è quella della tassazione sulle transazioni finanziarie, che non risolve i problemi del rilancio dell’economia, che non può prescindere dal rilancio di una politica industriale.

Il fattore scatenante della crisi è stato l’emissione di strumenti finanziari fuori di ogni controllo, ma sarebbe sbagliato puntare le critiche soltanto sulle finanze e i finanzieri (cattivi, anzi malvagi) e lasciando fuori l’industria e il sistema delle imprese (buono e virtuoso), come pare fare il PD con la campagna di manifesti “Uscire dalla Crisi- Fiducia nell’impresa”.

È un dato di fatto che le imprese, specie le grandi corporation multinazionali, non sono state estranee alla finanziarizzazione dell’economia, nella supervalutazione della crescita in borsa rispetto a piani d’investimento pluriennali e in una remunerazione dei manager in base agli stessi criteri dei bonus per gli operatori finanziari.

Infine, non è stata la finanza, ma l’industria a comprimere nell’arco di un ventennio la parte del PIL destinata a stipendi e salari rispetto a profitti e rendite e a delocalizzare con l’unico criterio dei bassi salari, anche quando l’incidenza degli stessi sul prodotto finale diminuiva.

Se a sinistra non si apre un dibattito e un confronto su questi punti non si va da nessuna parte e non si recuperano i consensi perduti.

Finalmente è stato tradotto anche in italiano il libro uscito postumo di Tony Judt (1948-2010) “Ill fares the land” con il titolo “Guasto è il mondo” (Laterza, 2011).

Si legga la parte dedicata all’altra grande crisi del 1929-1932 in cui tutta la sinistra storica, dai comunisti ai socialdemocratici, non elaborò alcuna proposta su cosa fare affinché non si ripetesse e si uscisse dalla crisi. Una volta detto che la colpa era del capitalismo e delle sue contraddizioni interne, ci si è fermati là.

Da quella crisi si uscì con le politiche economiche keynesiane, ma soprattutto con la Seconda Guerra Mondiale.

Non ci sono ricette semplici ma si dovrebbe quantomeno sottoporre a una verifica proposte come quella di una decrescita, come unica risposta alla compatibilità ambientale. Senza crescita non si possono ridurre le diseguaglianze mantenendo un sistema democratico, cioè basato sul consenso della maggioranza dei cittadini.

Le disparità di reddito e di patrimoni si sono incrementate anche all’interno delle società sviluppate e gli squilibri di sviluppo planetari, aggravati dalle speculazioni sulle materie prime e i prodotti agro-industriali, sono un fattore costante di minaccia alla pace oltre che provocare fenomeni di portata mondiale, quali le migrazioni di massa, in cui fattori economici e politico-sociali sono strettamente intrecciati.

In una situazione come questa si comprende (psicologicamente, meno politicamente), che, nonostante la revisione iniziata all’interno del PSE (e che si è estesa all’Internazionale Socialista dopo gli infortuni legati ai partiti associati di Egitto e Tunisia, radiati in tutta fretta) e dei suoi maggiori partiti (SPD e Labour in testa), si pensi agli anni ’90 del secolo scorso ancora come la golden age del socialismo democratico.

Come dare torto quando su quindici membri dell’allora UE, tredici avevano un primo ministro socialista e il 14° era Romano Prodi? Mai i partiti socialisti democratici hanno avuto tanto consenso democratico ma questa constatazione è altrettanto fuorviante di quella che dà il socialismo, nella versione socialdemocratica, per definitivamente tramontato dopo le sconfitte elettorali.

Il punto è altro: l’uso fatto del consenso per raggiungere gli obiettivi propri di un movimento socialista e di sinistra sia nelle politiche economiche nazionali sia nelle istituzioni europee.

Il consenso in elezioni nazionali è stato l’alibi per non cambiare nulla, né nella struttura e nel coordinamento europeo dei partiti socialisti, né nelle istituzioni europee, men che meno per mettere in discussione il pensiero unico neoliberista. Finché c’era crescita era possibile una distribuzione della ricchezza, che si traduceva in consenso elettorale.

Se mi è consentito un paragone, è stata una fase, come quella dell’acme dell’imperial-colonialismo europeo, che ha consentito le prime leggi sociali per tenere buona la forza crescente dei partiti socialisti democratici.

Il socialismo democratico ha fatto un compromesso con il capitalismo, che nel complesso si deve giudicare virtuoso, nel senso che ha consentito un modello sociale europeo che rappresenta una delle più alte conquiste dell’umanità e che altri stati di forte sviluppo come gli USA o la Federazione Russa e la stessa Cina Popolare ci deve invidiare.

Il compromesso maggiore, anzi un nesso indissolubile,il socialismo democratico l’ha stabilito con la libertà e la democrazia, in questo la rottura con il filone comunista è stata netta.

Tuttavia da questi compromessi storicamente positivi, nel senso che il benessere si è diffuso con la protezione sociale e la democrazia si è estesa, derivano i problemi attuali dei partiti del PSE, ma di tutta la sinistra in realtà.

Il quadro dello Stato nazionale, quello in cui si sono realizzate le conquiste maggiori e più durature, si è progressivamente indebolito e le istituzioni internazionali si sono rafforzate, ma non il loro controllo democratico: il deficit è particolarmente grave nelle istituzioni, dove sono rappresentati i governi e senza una dimensione parlamentare si pensi all’ONU, al FMI e all’OMC (WTO), istituito quest’ultimo senza nemmeno il passaggio di una ratifica parlamentare di un trattato internazionale istitutivo.

Dove pure una dimensione parlamentare è prevista (Consiglio d’Europa, Nato o OSCE) le delegazioni parlamentari non sono sostenute da un’attenzione dei loro parlamenti, neppure in sede di distribuzione delle risorse.

L’estensione sulla carta di poteri del Parlamento Europeo è indebolita dalla scarsa partecipazione elettorale: nel 2009 per la prima volta con una media inferiore al 50%.

La diminuzione di partecipazione si registra anche alle elezioni politiche nazionali, ma senza mai raggiungere la percentuale di astensione delle europee.

La diminuzione della partecipazione elettorale indebolisce i partiti socialdemocratici e appare irrisolvibile, perché sono proprio gli strati meno istruiti e più poveri i primi, che si astengono della partecipazione elettorale. Se la riduzione delle diseguaglianze è posta al primo posto dell’agenda politica socialista e i beneficiari non partecipano, avrà più peso elettorale, chi si sente minacciato dall’equità. La politica economica di molti governi a guida socialista è stata quella di preferire l’equilibrio di bilancio, riducendo le prestazione del welfare, piuttosto che incrementando le entrate, ha allontanato elettori tradizionali ovvero li ha spinti nell’area della protesta populista xenofoba e securitaria, cioè l’allineamento ideologico al neoliberismo ha fatto perdere consensi popolari non più compensati dalla conquista dei ceti medi.

Un fenomeno analogo si è verificato nelle grandi città, dove la terziarizzazione delle funzioni ha provocato l’espulsione degli abitanti verso le aree metropolitane di cintura, con il risultato di perdere voti a favore della destra: due città gemellate come Francoforte e Milano sono esemplari da questo punto di vista.

Il fenomeno si è arrestato, dove il partito socialista è riuscito a imporre un modello di qualità della vita, che ha attratto culturalmente e politicamente i ceti medi urbani.

La crisi economica offre ora l’opportunità di una nuova alleanza progressista tra ceti medi e i settori popolari decisivi per vincere democraticamente le elezioni.

Questa constatazione deve puntare a un cambiamento di mentalità a sinistra. Per esempio nelle libere professioni come nel popolo delle partite IVA vi è una frattura netta tra gli evasori fiscali e i contribuenti onesti, come anche tra gli artigiani e i piccoli commercianti, tutti invece demagogicamente additati come evasori.

Nel centro-sinistra sono più popolari banchieri e grandi imprenditori di cui si coltiva l’amicizia e i favori, e ai quali sono stati dati, a prezzi di saldo, importanti asset pubblici con le liberalizzazioni/privatizzazioni (più privatizzazioni che liberalizzazioni).

Una ripresa della sinistra è un fatto di valori e perciò anche di battaglie politico-culturali, ma anche di scelte di modelli di sviluppo, che per la sinistra italiana sono tutti già indicati nella parte economica e nei rapporti sociali della nostra Costituzione (in particolare gli artt. 36, 37, 38, 40, 41, 42, 43, 44, 45 e 46).

Una diversa mentalità si deve imporre a sinistra con la riconquista del consenso popolare, paradossalmente a Torino si dovrebbe prestare maggiore attenzione e ascolto a chi ha votato SI’ al referendum Marchionne piuttosto che agli eroi del NO. Si deve smettere di valorizzare soltanto le avanguardie esemplari e prestare attenzione a chi non partecipa alle manifestazioni o non sottoscrive appelli.

Il sistema di dominio e i suoi meccanismi sono più efficaci proprio, dove ci sono soggetti più deboli, quelli che per usare le categorie di Franco Cassano (L’umiltà del Male, Laterza, 2011) sono più esposti.

Il nostro compromesso, nel senso d’impegno, con la democrazia si rafforza là, nelle terre di missione, tra i deboli e gli indecisi, piuttosto che tra chi è orgoglioso della propria appartenenza a un’elite illuminata: il popolo bue per il consenso democratico è più importante dei puri e duri. Quando si perde consenso, non si può reagire come nella DDR dopo le rivolte operaie del 1953. Berthold Brecht sbeffeggiò i dirigenti della SED nel famoso epigramma, in cui diceva che il popolo tedesco aveva perso la fiducia del Governo e del Partito, che perciò ne avrebbero scelto un altro.

Se il popolo ti volta le spalle, non è per colpa di un destino cinico e baro, ma perché hai sbagliato o non hai spiegato cosa vuoi, come lo vuoi e con chi lo vuoi.

C’è bisogno a sinistra di una nuova alleanza tra credenti solidari e laici egalitari, tra fede religiosa e umanesimo socialista. Niente di nuovo, già nel 1959 a Bad Godesberg la socialdemocrazia tedesca nel nuovo programma scrisse: “Il socialismo democratico, che in Europa, affonda le proprie radici nell’etica cristiana, nell’umanesimo e nella filosofia classica..”: l’unica aggiunta da fare è non limitare la motivazione religiosa al cristianesimo e di porre tra gli obiettivi di una nuova società non soltanto libertà ed eguaglianza ma anche dignità, rispetto e una certa dose di felicità.

Milano, 10 marzo 2011

Felice Besostri