di Felice Besostri |

La maggioranza Draghi è, con espressione antiquata, una maggioranza bulgara sia al Senato della Repubblica, 81,61% (262 voti favorevoli, 40 contrari e due astensioni su 321), che alla Camera dei deputati, 84,92% (535 sì, 56 no e 5 astensioni su 630) e senza alternativa, almeno fino alla elezione del Presidente della Repubblica nel gennaio 2022, dove si formerà una maggioranza presidenziale, nell’assemblea composta dal Parlamento in seduta comune e 58 delegati regionali, non necessariamente coincidente con quella di governo, anche se l’eletto fosse proprio il Presidente del Consiglio, come troppi hanno, incautamente, dato per scontato.

Le nostre istituzioni sono in crisi da anni e la pandemia ho reso solo più evidente questa crisi, che ha le sue radici nella crisi del sistema politico dei partiti rappresentati nel Parlamento, che non è più quello della Prima Repubblica e che, peraltro non è mai stato quello previsto dalla Costituzione nel suo articolo 49, mai attuato. Paradossalmente la crisi si è accentuata con le scelte dettate dalla volontà di assicurare la stabilità degli esecutivi, la cosiddetta governabilità, attraverso una riforma della legge elettorale da proporzionale a maggioritaria, con prevalenza iniziale di collegi uninominali pari ai 3/4 dei seggi (Mattarellum) e successivamente grazie a un premio di maggioranza bipolarizzante nelle intenzioni. Il progetto è fallito nei fatti e, per di più, era fondato su una legge elettorale, la n. 270/2005, conosciuta come Porcellum, con la quale si sono svolte le elezioni del 2006, 2008 e 2013 finché non è stata dichiarate incostituzionale, negli aspetti essenziali di premio di maggioranza e liste totalmente bloccate dalla storica sentenza n. 1/2014 della Consulta.

In questi ultimi 15 anni al popolo italiano, al quale apparterrebbe la sovranità è stato garantito il diritto di voto, ma non quello di eleggere i propri rappresentanti, rubato nel 2005 e mai più restituito.

Il Parlamento eletto nel 2013, infatti ha approvato una legge, la n. 52/2015, funzionale alla deforma costituzionale sconfitta nel referendum del 4 dicembre 2016, anch’essa incostituzionale per i motivi della sentenza n. 35/2017. e ha concluso la legislatura con l’approvazione della legge 3 novembre 2017, n. 165 con 8 voti di fiducia, 3 alla Camera e 5 al Senato in violazione dell’’art. 72.4 Cost. a ridosso dello scioglimento delle Camere e della convocazione dei comizi elettorali per il 4 marzo 2018 disposti con i due decreti del Presidente della Repubblica del 28 dicembre 2017, nn. 208 e 209.

Questa concatenazione di atti e tempi escludeva ogni possibile tempestiva impugnazione in via incidentale in tempo utile per un esame della costituzionalità della legge elettorale prima delle elezioni e in quel tempo era lontana la possibilità teorica di un ricorso per conflitto d’attribuzione promosso da un singolo parlamentare, stabilita soltanto due anni dopo con ordinanza 08/02/2019 n° 17.

La crisi delle istituzioni ha portato con sé una perdita di prestigio dei loro componenti, salvo il Presidente della Repubblica, e a fasi alterne il Presidente del Consiglio, resa evidente dalla costante diminuzione della partecipazione al voto, una volta eccezionalmente alta in Italia, ancora il 90,62 % nel 1979 e rimasta superiore al 80% fino alle elezioni del 2008, per cadere al 75,20% del 2013 e al 72,94% del 2018: guarda caso in coincidenza con la fine del bipolarismo, che si era cercato di imporre con le leggi elettorali. In termini assoluti si sono perduti più di 6 milioni di votanti tra il 2006, le prime elezioni con la Circoscrizione estero e il 2018 e 4 milioni di votanti rispetto al 1979 con un corpo elettorale allora  di 42.203.354 cittadini asceso a 50.835.751,quindi il 6,74% degli elettori e l’11,67% dei votanti.

La classe politica parlamentare era votata dai cittadini, ma non eletta e il disprezzo si è manifestato con il consenso popolare al taglio dei vitalizi effettuato con deliberazioni degli Uffici di presidenza delle Camere, invece che con legge, per fare in fretta, ma soprattutto  per mettersi a riparo con l’autodichia  da un possibile intervento della Corte costituzionale su iniziativa di un magistrato: una furbizia che si tradotta in un boomerang.

Il sacrificio degli ex parlamentari non bastava, bisognava colpire quelli in carica, con una riduzione consistente del 36,50% approvata in tutta fretta nel 2019 alla Camera dei deputati addirittura in seconda votazione, con la maggioranza dei due terzi dei suoi componenti, nella seduta dell’8 ottobre 2019 e consacrata da 17 913 089 di italiani, il 68,77%dei votanti nel referendum costituzionale  del settembre 2020.

Come ricostruire un rapporto  con il popolo, cui appartiene la sovranità, da parte di un Parlamento percepito come non rappresentativo?

Questo Parlamento, benché frutto di una legge che ha bloccato tutte le candidature comprese quelle uninominali maggioritarie, con l’obbligo di voto del sistema de a pena di nullità, sconfessione eclatante di un voto libero e personale richiesto dall’art. 48 Cost., deve riscattarsi e riaffermare la sua centralità, come organo costituzionale.

Questa XVIII legislatura dovrebbe prendere esempio, dalla XI in carica dal 23 aprile 1992 al 14 aprile 1994, per un totale di 722 giorni. È stata la legislatura più breve della storia della Repubblica Italiana nonché l’ultima della cosiddetta Prima Repubblica. Era un periodo turbolento con attentati terroristico mafiosi nel 1992 e 1993 e con lo scoppio di tangentopoli. Quel Parlamento fu capace di approvare una nuova legge elettorale e di modificare l’art. 68 Cost. sull’immunità dei parlamentari.

Anche questa volta la prima sfida è sulla legge elettorale, visto che ha avallato una riduzione dei parlamentari del 36,50% senza preoccuparsi di assicurare una rappresentatività politica e territoriale equilibrata e il principio supremo dell’uguaglianza dei cittadini.  Chiaramente non c’è una maggioranza per una nuova legge elettorale, ma dovrebbe esserci un comune interesse a votare il prossimo rinnovo del Parlamento con una legge, che abbia superato il vaglio di costituzionalità. Sono già pendenti due ricorsi contro il Rosatellum presso il Tribunale civile di Roma e la Corte d’Appello di Messina, altri ricorsi sono stati depositati contro la legge elettorale vigente, cioè la legge n. 165/2017 come modificata dalla legge n. 51/2019 e completata dal d.lgs. n. 177/2020 e altri, a iniziativa di comitati regionali del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, saranno presentati nei Tribunali delle città capoluogo di distretto di Corte d’Appello. I parlamentari possono sottoscrivere i ricorsi e/o appoggiarli con ordini del giorno e con interrogazioni e interpellanze per conoscere quali istruzioni saranno date all’Avvocatura dello Stato. I tempi tecnici ci sono per una decisione durante il semestre bianco e cioè prima dell’elezione del nuovo Presidente, come dimostrato dalla recente sentenza n. 48 del 26 marzo 2021, che ha deciso un’ordinanza del Tribunale di Roma del 1° settembre 2020.

Il secondo segnale sarebbe quello di dare un minimo di regole all’elezione del Presidente della Repubblica: l’attuale procedura non prevede nemmeno l’esistenza di candidati e che si possa votare solo per candidati, chiaramente individuati. In un ordinamento costituzionale, come è quello della Germania le regole sono chiare, ogni membro dell’Assemblea federale, composta dai membri del Bundestag e da un pari numero di nominati dai 16 Länder, che costituiscono la Federazione tedesca, ha la facoltà di proporre candidati in connessione con ogni votazione a maggioranza assoluta le prime due e a maggioranza relativa a partire dalla terza, che è quella finale e decisiva, salvo che il candidato più votato non accettasse la carica. La durata del mandato è di 5 anni e il Presidente federale è rieleggibile, ma finora non è mai successo che il Presidente uscente chiedesse la riconferma, pertanto la dichiarazione di Frank-Walter Steinmeier, il 12° Presidente tedesco è una novità, segno di una difficoltà del sistema politico tedesco di trovare un nuovo equilibrio con la fine dell’era Merkel e della crisi manifesta della Grosse Koalition, che non ha più la maggioranza assicurata  nella configurazione ormai stabile di 6 partiti a livello federale.

Proprio per la mancanza di regole trasparenti l’elezione italiana ha sempre riservato delle sorprese e si è prestata a colpi di scena, come la mancata elezione di Prodi. I nostri parlamentari devono decidere se la scelta spetta a loro insieme con i 58 delegati regionali ovvero siano ridotti a figuranti al servizio di chi li ha nominati o di altri interessi ovvero di manovre di candidati, che tatticamente vogliono agire rimanendo al coperto.  Nulla è scontato, ma almeno una conoscenza anticipata dei candidati sarebbe un messaggio chiaro all’opinione pubblica, che i parlamentari rappresentano la Nazione e non oscure congreghe o soltanto chi li ha nominati, un messaggio che consentirebbe un nuovo rapporto di fiducia tra il popolo e le istituzioni.

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