di Luciano Belli Paci

Quando Bettino Craxi venne scelto come segretario nel 1976 fu, per dirla con la Butterfly, un po’ per celia e un po’ per non morire.
La celia cessò presto, quando si capì che l’impacciato giovane capo della minuta corrente nenniana nascondeva dietro le sue lunghe pause il fiuto e la grinta di un leader di prima grandezza.
La missione di non far morire il Psi richiese più tempo. Il problema non si limitava al nanismo elettorale, ma era costituito soprattutto dallo smarrimento del ruolo politico dei socialisti, che non solo non erano compiutamente né di lotta né di governo, ma si erano avviluppati da soli in una doppia subalternità ai vasi di ferro Dc e Pci, i quali peraltro ormai collaboravano direttamente senza alcun bisogno dei loro buoni uffici.

Per uscire dalla nicchia del terzo incomodo, Craxi adottò la strategia corsara di Francis Drake, fatta di veloci incursioni, di virate temerarie, di sfide, astuzie, spavalderie. Ma la sua eccezionale abilità nella guerra di corsa, anche se tenne in scacco la duplice Invincibile Armada contribuendo a far abortire il compromesso storico, non sarebbe bastata a salvare il Psi. Nel caso del Partito Socialista, il motto latino primum vivere deinde philosophari era manifestamente sbagliato perché alla radice della consunzione vi era proprio una tabe ideologica, un’anomalia nel philosophari.

Alla campagna di revisione ideologica scatenata da Craxi, ed in particolare alla storia dell’articolo che uscì sull’Espresso del 27 agosto 1978 col titolo Il Vangelo Socialista e che segnò il punto di svolta nel Kulturkampf craxiano, è dedicato il volume curato da Giovanni Scirocco nel quarantennale del pamphlet firmato dal segretario del Psi (Il Vangelo Socialista; rinnovare la cultura del socialismo italiano, Aragno Editore). Un brillante e documentatissimo saggio introduttivo dello stesso Scirocco ed un carteggio – fin qui inedito – tra due intellettuali socialisti, Luciano Pellicani e Virgilio Dagnino, illuminano la portata e le ragioni dello scontro ideologico che, a partire dal “Vangelo” (ma in realtà già dalla Biennale del dissenso del 1977), contrappose per tre lustri Pci e Psi.

Il Vangelo Socialista passò nella vulgata come “saggio su Proudhon” a causa di un certo esotismo di Pellicani, il ghost writer dell’articolo, il quale essendo fresco di studi su una serie di semi-dimenticati autori libertari, aveva infarcito il testo di citazioni di questo minore filosofo francese, del quale nel Psi pochissimi conservavano il ricordo e quasi nessuno sapeva pronunciare correttamente il cognome. Ma il pamphlet, ovviamente, non era su Proudhon, bensì sul marxismo-leninismo, o per meglio dire sulla linea di continuità filosofico-politica che, a partire dal Marx profeta politico (e prima ancora da Hegel), porta a Lenin ed infine produce, immancabilmente, la statolatria comunista replicatasi nell’Urss ed in tutti gli esempi di “socialismo realizzato”.

Fare i conti col marxismo, come Bernstein aveva fatto nel 1899, come Rosselli aveva fatto nel 1929, come la SPD aveva fatto nel 1959 solennemente a Bad Godesberg: questo era il Rubicone da attraversare. L’abissale ritardo del Psi non era casuale, anzi era stato fino ad allora apertamente rivendicato vantando la diversità del socialismo italiano dalle socialdemocrazie europee. Una vera e propria dannazione auto-inflitta i cui risultati erano sotto gli occhi di tutti, dato che il Psi si era ridotto ad essere, sul piano ideologico, solo una variante del Pci più delicata di stomaco, oltre che molto meno compatta, meno finanziata e meno organizzata. E di conseguenza l’Italia era stata condannata ad essere l’unica democrazia occidentale impossibilitata all’alternanza, avendo una sinistra egemonizzata dai comunisti.

La scelta di recepire al volo il testo “proudhoniano” di Pellicani e pubblicarlo su un settimanale, anziché allestire una solenne Bad Godesberg italiana, fu un esempio tipico del carattere garibaldino – nel bene e nel male – di Craxi. Comunque, al di là della forma corsara, il punto era centrato. La conquista di una solida autonomia ideologica coronava e garantiva l’acquisizione della piena autonomia politica.
Da quel momento fu chiaro che la lunga stagione nella quale il Psi era stato un “grande e inqualificabile minestrone ideologico” (Pellicani) era finita. Fu chiaro che per i socialisti il comunismo “non era (più) una buona idea realizzata male, era proprio un’idea sbagliata”, essendovi “perfetta corrispondenza tra la teoria marxista e la prassi leninista” (ancora Pellicani). Abbandonando ogni timore reverenziale, il partito proclamava l’esistenza, fra comunismo leninista e socialismo, non già di un semplice conflitto sui mezzi da adoperare, bensì di “una incompatibilità sostanziale che può essere sintetizzata nella contrapposizione tra collettivismo e pluralismo” (Craxi, il Vangelo Socialista).

In buona sostanza, il Psi finalmente si liberava da una ormai grottesca contraddizione tra teoria e prassi, ripudiando la mitologia del “grande balzo nel totalmente altro”, la mentalità rivoluzionaria, l’ossessione religiosa della salvezza e della perfezione, per inserirsi a pieno titolo nella famiglia socialdemocratica. Perché “le società che hanno più progredito nella direzione dell’uguaglianza e della libertà sono quelle in cui il messianesimo non ha intralciato il lavoro riformatore dei socialisti pragmatici” (Pellicani).
Il Pci rispose alla svolta socialista, come è noto, ribadendo la professione di fede leninista e la pedagogia del disprezzo verso la socialdemocrazia. Il gruppo dirigente guidato da Berlinguer continuava a rivendicare l’originalità della “via italiana”, il che equivaleva ad un pervicace affidamento nella riformabilità del comunismo sovietico.
La conclusione della lunga contrapposizione tra le due anime della sinistra italiana arriverà nella forma di uno dei tanti paradossi della storia, visto che la caduta del Muro di Berlino, che certificò una volta per tutte dove stava la ragione e dove il torto, segnò anche l’inizio della fine della Prima Repubblica e dello stesso Psi che ne era divenuto lo snodo vitale.

Oggi che appare tramontata anche la Seconda Repubblica, quello scontro di idee apparentemente così distante ci parla invece ancora di noi, del travaglio infinito della sinistra italiana. Perché, come ha scritto il direttore dell’Espresso Marco Damilano nel quarantennale dell’uscita del “Vangelo”, ci ricorda che “senza una visione della società, senza una lettura della realtà non si può costruire nulla di solido, come dimostrano le esperienze a sinistra degli ultimi 25 anni”.