«Ho ritrovato un  mio antico contributo ad un  volume di riflessione sul Socialismo in Europa a dieci anni dall’invasione che ha posto fine alla primavera di Praga. Quel convegno credo che sia stata una delle ultime fatiche di Lelio Basso nell’anno della sua morte. Ora gli anni saranno 47 nell’agosto di quest’anno. Il prossimo 25 aprile saranno invece 41 anni dalla rivoluzione portoghese dei garofani. L’11 settembre saranno 42 anni dal golpe de estado che pose fine  in Cile a Unidad Popular. I 40esimi sono passati senza suscitare una vasta ed intesa riflessione politica collettiva. Dobbiamo aspettare i rispettivi 50esimi? O possiamo anticipare e unificare in questo anno 2015, anno in cui si decide il sistema costituzionale e politico italiano, la riflessione politica che a sinistra non si è fatta. (Felice Besostri)

Il socialismo in europa dieci anni dopo la Cecoslovacchia

Voglio parlare del caso cecoslovacco come caso emblematico e contraddittorio delle possibilità di riforma o di cambiamento di un paese a socialismo reale. Utilizzo questa definizione senza con questo voler ritenere che siano o no società socialiste (credo che questo non sia, tra l’altro, un punto molto importante, quello della definizione di queste società, rispetto ai loro problemi). Da un lato l’esperienza della Primavera di Praga sta a dimostrare la possibilità della trasformazione di questi regimi dittatoriali, dispotici, polizieschi, burocratici in qualcosa di diverso, cioè in regimi basati sulla partecipazione delle masse, dove i cosiddetti diritti di libertà sono goduti pienamente. Uno dei segni caratteristici della Primavera di Praga era quella libertà della stampa, della radio, della televisione, libertà che fu ampia anche a confronto con quanto avviene nei nostri paesi dell’Europa occidentale dove ci sono le strozzature determinate dai monopoli o da chi controlla questi mezzi di informazione. Quanto è avvenuto sta a dimostrare che questa possibilità esiste, cioè una strada è stata indicata e può sembrare ripercorribile: se è avvenuto in Cecoslovacchia, può avvenire in altri paesi a socialismo reale e comporta, quale conseguenza per la nostra azione, che si individuino i nostri interlocutori naturali nei partiti comunisti di questi altri paesi. Possiamo sempre sperare che un Dubcek o un Smrkowski se ne stiano nascosti, ma sempre pronti a uscire allo scoperto! Ma l’esperienza cecoslovacca dimostra, anche nel paese dove queste possibilità si sono realizzate e le condizioni per realizzarsi erano le migliori, che l’esperienza è finita il 21 agosto 1968 con l’invasione delle truppe del patto di Varsavia (eccetto la Romania ).

Questo è uno dei punti che noi dobbiamo affrontare: è la difficoltà di sapere se da quell’esperienza noi possiamo trarre un insegnamento di carattere generale, sia esso quello della possibilità di una trasformazione, sia quello dell’impossibilità. Sulle possibilità: la Cecoslovacchia era un caso particolare, era un paese nel quale anche prima del colpo di Stato del febbraio 1948 il Partito comunista esercitava una vasta influenza (concordo con Boffa quando dice che definirlo colpo forse non è esatto; anzi uno degli estimatori della via cecoslovacca al socialismo, un certo Jan Kozak, definisce in un suo libro la presa del potere comunista del 1948 col titolo «senza colpo ferire», cioè come esempio di conquista del potere basata sulla duplice pressione dall’alto e dal basso, voluta dal Parlamento, che poi legittimò il governo, e dalle masse). Tuttavia, se non fu un colpo di Stato, un colpo di Stato in senso classico, la sua evoluzione rapida e successiva fino ai processi staliniani degli Anni Cinquanta è tale da dire che le conseguenze sono state le stesse di un colpo di Stato e per venti anni in Cecoslovacchia si è pagata la frattura creata nella società con la presa violenta del potere. Comunque c’era un partito comunista con una base di massa e un ampio consenso elettorale, un partito comunista che aveva tra l’altro come suo retroterra (anche questo è un fatto importante) una forte tradizione socialdemocratica (d’altronde la Cecoslovacchia ha sempre gravitato verso il centro-Europa e la socialdemocrazia tedesca); vi erano delle condizioni di produzione molto piú avanzate che negli altri paesi dell’est; c’era una tradizione democratica e civile in Cecoslovacchia che non trovava riscontro negli altri paesi dell’Europa orientale. La primavera c’è stata, però c’è stato anche l’intervento, il freddo agosto 1968. Da qui il problema se i limiti a queste esperienze di riforma di un sistema comunista siano soltanto esterni, cioè l’appartenere o meno a un blocco — ed è la questione che poneva all’inizio il compagno Basso sulle cause che hanno determinato questo intervento — e dipende dalle risposte alla questione se l’Unione Sovietica sia o no una potenza imperialistica. Sono dell’opinione che il concetto di«imperialismo» ha un suo significato ben preciso, storico, e che la sua applicazione meccanica all’Unione Sovietica può essere errata da un punto di vista filologico. Il problema filologico può essere facilmente risolto definendolo un imperialismo sui generis, con caratteristiche diverse dall’imperialismo degli Stati Uniti. Credo che non siano ancora stati esplorati a fondo i rapporti tra l’Unione Sovietica e i paesi dell’est dell’Europa.

Si tratta di vedere in concreto se c’è un trasferimento di risorse da questi paesi all’Unione Sovietica, se questi rappresentano o no un mercato insostituibile per certe merci dall’Unione Sovietica. Vi sono alcune caratteristiche nei rapporti dell’URSS con gli altri paesi, anche con i suoi alleati, per cui tali rapporti sono, a mio avviso, di tipo imperialistico, per lo meno sono rapporti che cercano di mantenere un rapporto di dipendenza verso l’Unione Sovietica. Un caso è quello di Cuba. La necessità di mante-nere quella rivoluzione con l’aiuto dell’Unione Sovietica ha avuto però una conseguenza: una delle caratteristiche di Cuba al tempo della dominazione imperialista, quella di essere un paese sostanzialmente monoproduttore, è stata mantenuta, anzi rafforzata rispetto ai primitivi programmi di diversificazione produttiva. Cuba deve continuare a produrre piú zuccchero poiché esso è l’unico prodotto che è in grado di dare in cambio all’Unione Sovietica. Anche in Cecoslovacchia ci sono questi elementi: c’era il problema dell’uranio, ‘sfruttato da società miste cecoslovacche e sovietiche, trasferito quasi interamente nell’Unione Sovietica a prezzi inferiori a quelli del mercato internazionale. Mancano troppi elementi per poter stabilire se questi e altri rapporti, come la tendenza alla integrazione del Comecon, che crea tra l’altro grosse resistenze anche all’interno dei paesi dell’est, anche fra i piú fidi, a parte forse la Bulgaria, sono stati decisivi per l’intervento repressivo sovietico.

Il problema perciò di uno Stato, come la Cecoslovacchia, che scegliesse un altro modello politico, aveva probabilmente anche delle conseguenze di tipo economico, cioè il rifiuto di una integrazione piú spinta tra le economie dei paesi dell’est tale da renderli talmente interdipendenti uno dall’altra che nessuno dei paesi poteva svolgere una propria politica commerciale e industriale. Sono tensioni, problemi che esistono anche adesso, problemi non risolti dall’intervento dell’Unione Sovietica in Cecoslovacchia tant’è che l’indebitamento verso i paesi dell’occidente, di paesi come la Polonia e l’Ungheria, è cresciuto in modo vertiginoso in questi ultimi tempi e la stessa Unione Sovietica si pone il problema, per l’acquisizione tecnologica, di aumentare l’interscambio con i paesi dell’occidente. C’è stato indubbiamente da parte dell’URSS il rifiuto del possibile modello alternativo cecoslovacco. Questa è una caratteristica comune all’altra potenza imperialista: è l’esempio degli Stati Uniti e dell’esperienza cilena. Causa determinante dell’intervento dell’imperialismo erano gli interessi minacciati (il fatto che ci fosse una produzione di rame che sfuggiva alle multinazionali), oppure, anche in quel caso, era il contagio di un modello? Cioè della possibilità, in un paese dell’America latina, di compiere profonde trasformazioni sociali per via pacifica, per via democratica, riaffermando quello che è poi il punto essenziale di ogni trasformazione, cioè l’esigenza di rompere i legami di dipendenza dagli Stati Uniti? Si è già parlato, per inciso, del fatto che nei paesi dell’Europa occidentale i condizionamenti della potenza imperiale, gli Stati Uniti, sono indubbiamente minori rispetto a quelli della potenza sovietica nei confronti dei paesi dell’est. Questo è vero se riferito all’Europa occidentale. Se dobbiamo paragonare queste due grandi potenze, metterei sullo stesso piano i paesi dell’Europa dell’est nei confronti dell’Unione Sovietica, e i paesi dell’America latina rispetto agli Stati Uniti: molte sono le analogie. È vero che l’ambasciata sovietica teneva dei rapporti con Smrkowski, come il dipartimento di Stato attualmente tiene dei rapporti con gli oppositori di Somoza; è una attività normale, poiché se oltre a controllare i governi si riesce anche a conoscere o controllare l’opposizione, il proprio ruolo egemonico ne risulta rafforzato. Torniamo al tema della Cecoslovacchia, che mostra da un lato la possibilità, dall’altro anche un limite alla trasformazione di un modello politico. Credo che il limite principale consista nell’appartenenza a un sistema di alleanze che come tale non è soltanto militare.

Necessariamente l’appartenenza a un sistema comporta anche valori di tipo politico e ideologico, dei quali si fa garante la potenza guida, e quindi una trasformazione che leda questi principi è sottoposta alle reazioni internazionali. Non so se sarà questo il caso anche del nostro paese. La via che noi abbiamo scelto, tutti quanti, col governo di unità nazionale, è sicuramente tale da metterci al riparo da queste interferenze; ma soltanto in quanto non ci si pongono immediatamente obiettivi tali da poter scatenare rea-zioni internazionali. Resta comunque il problema che queste relazioni internazionali, il sistema dei blocchi di cui si fa parte, vada attentamente analizzato e considerato per il riflesso che ha anche sulla strategia di trasformazione politica all’interno di ogni singolo paese. Anche qui, un rapido inciso sulla NATO. Certo che passare da posizioni che erano comuni tra socialisti e comunisti («fuori le basi americane dalla NATO») al fatto che si è accettato questo tipo di alleanza è strano; probabilmente c’è anche una terza via, se dobbiamo sempre cercare delle terze vie. Per lo meno discutere di certi meccanismi della NATO e del suo funzionamento, è un’attività che le forze di sinistra in Italia dovrebbero fare e non aspettare, come è stato, la lezione che hanno dato alla sinistra italiana i socialdemocratici tedeschi, che discutono in profondità della politica di difesa e di sicurezza. Il sistema dei blocchi: il fatto fondamentale resta perciò che certi cambiamenti avvengano all’interno dell’Unione Sovietica, nel cuore del sistema. Sono questi possibili? Credo che c’è una possibilità per ogni società di rispondere positivamente alla necessità di trovare dei meccanismi di trasformazione. Ritengo però che la struttura politica dell’Unione Sovietica sia tale da rendere piú difficile questa trasformazione. Vi è stato, è vero, il precedente riformatore di Krusciov. È stato un serio tentativo di riforma, ma un tentativo di riforma che partiva dall’alto, cioè nasceva all’interno di una struttura piramidale come quella del Partito comunista dell’Unione Sovietica e alla quale le masse, la classe lavoratrice, gli intellettuali non potevano essere associati. È questa la grossa debolezza di ogni tentativo di trasformazione dall’interno, poiché la struttura politica, il modo in cui si forma il consenso e si recluta la classe dirigente, impediscono di poter coinvolgere in questa opera di trasformazione la gran parte della popolazione. Senza questo coinvolgimento non è possibile un’opera di trasformazione. Le resistenze interne della burocrazia di partito tesa a conservare un aspetto della società che la privilegia sono tali che senza partecipazione popolare delle masse non è possibile una trasformazione. La partecipazione delle masse presuppone però che esistano canali di comunicazione con le masse, che esista la possibilità di una modificazione dal basso e non soltanto dall’alto, dietro a mere parole d’ordine; significa anche che è questo uno degli aspetti delle società a socialismo reale che occorre rimuovere, rompendo la logica corporativa sulla quale sono fondate. Si afferma il principio che il ruolo dirigente è della classe operaia, che però non lo esercita, perché è il partito che lo esercita. Una società di questo genere viene concepita a compartimenti stagni: gli scienziati hanno la loro accademia delle scienze, gli scrittori la loro unione degli scrittori, le casalinghe la loro organizzazione, i lavoratori i sindacati. Però ciascuno svolge un ruolo parziale, assegnatogli all’interno del sistema. Non vi è quella circolarità di idee tra i diversi gruppi sociali che può essere assicurata — questo è uno degli insegnamenti della Primavera di Praga — soltanto con le più ampie libertà formali, le libertà cosiddette borghesi; la libertà di stampa, la libertà di comunicazione, di manifestazione, di associazione e cosí via. Senza questo, anche gli eventuali gruppi riformatori che esistono all’interno del partito e della società non hanno la possibilità di potersi esprimere, di entrare reciprocamente in contatto. Questo è un altro dei punti da affrontare e che non può essere risolto limitandoci al quesito se sono società socialiste o non socialiste. Francamente ritengo che sia un approccio non laico quello di partire da una nostra definizione, da un nostro modello di socialismo da cui poi far discendere tutte le altre considerazioni. Sto pensando ai dissidenti condannati recentemente, Scharansky a quattordici anni, qualcun altro a otto.

Per loro, sapere se si trovano in una prigione socialista o non socialista è assolutamente irrilevante. Se definiamo queste società come non socialiste, abbiamo la spiegazione immediata del perché le cose non vanno. Non vanno perché non sono società socialiste; ecco una spiegazione che risulta, a mio avviso, troppo comoda. Possiamo dire con sicurezza che, se sono società socialiste nulla cambia, non per questo diventano per noi piú suggestive. Sono assolutamente improponibili al movimento operaio dell’Europa occidentale; sono, a mio avviso, anche insopportabili per coloro che vivono sotto questo tipo di regime. Tuttavia, di fronte a queste società, credo che occorra, appunto, analizzarle, come analizziamo altre società: cioè conoscere il grado di partecipazione politica, il modo con cui si forma l’opinione pubblica, sapere come viene reclutata la classe dirigente, quali sono le possibilità di trasformazione. Un atteggiamento, il mio, che vuole essere riformatore e pragmatico, piú che ideologico. Ritengo che la prospettiva riformatrice, se la pratico nel paese dove vivo, abbia una certa validità anche fuori, e non condivido pertanto la posizione di coloro che sono dei riformatori timidi e quasi impercettibili nell’Europa occidentale, che, quando si tratta dell’Europa orientale, sostengono che l’unica linea possibile per rovesciare quei regimi è quella tipo brigate rosse.

Però, detto questo, resta un problema per le forze politiche italiane della sinistra: quale atteggiamento assumere nei confronti dei paesi dell’Europa orientale. Nella misura in cui va avanti la sinistra nel nostro paese, in Europa, si hanno dei riflessi nei paesi dell’Europa orientale, e avvenimenti come la Cecoslovacchia hanno riflessi anche nel nostro. Credo che l’atteggiamento delle forze della sinistra italiana e dell’Europa occidentale deve essere molto piú netto di quanto sia stato nel passato. Anche perché —dobbiamo dirlo per evitare preoccupazioni di strumentalizzazione — il compito della polemica ideologica e della difesa del dissenso è un compito che vogliamo assumere come partiti di sinistra e che non deleghiamo certo agli Stati. Dobbiamo evitare la tendenza, che trovo pericolosa per noi e per le possibilità di sviluppo dell’est, di coinvolgere nel problema dei diritti umani o di queste società i rapporti est-ovest e la distensione. Questo è sicuramente da evitare, però occorre che, se decidiamo di impegnarci per la pace e la distensione, il problema dell’interlocutore politico sia affrontato in modo molto piú preciso che in passato. Credo che le forze rinnovatrici esistevano indubbia-mente all’interno del Partito comunista cecoslovacco e sono emerse da lí; però ora sicuramente non ci sono piú. Il Partito comunista cecoslovacco ha avuto una epurazione notevole (circa 500.000 iscritti); alcuni casi li conosco personalmente, di tanti comunisti da 35 anni che hanno fatto la lotta di Resistenza e sí sono trovati a essere espulsi dal partito. Abbiamo tra l’altro fuori dal Partito comunista un dissenso che non è il solo dissenso intellettuale. Dove ci sono altre possibilità ne terremo conto. In Cecoslovacchia non si tratta, a mio avviso, di dissenso; si deve parlare di un’opposizione che ha una larga base di massa e che politicamente è articolata. Una delle lezioni da trarre a dieci anni dal 1968 è quella che a coloro che si oppongono in questi paesi noi dobbiamo riconoscere la dignità di essere interlocutori politici. Come vi è un’azione di solidarietà che possiamo fare tutti, dai liberali ai socialisti e ai comunisti, di difesa dei diritti umani e civili di chiunque, dal piú reazionario al piú progressista, vi è poi un compito specifico nostro della sinistra, di individuare all’interno dell’opposizione di questi paesi non casi umani ma interlocutori politici; riconoscendo loro questa dignità, credo che il dibattito, al nostro interno e anche al loro interno, ne risulterebbe certo migliorato.

Felice Besostri

La copertina originale

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