«Singolare destino, a novant’anni dall’assassinio, riconsiderare la vicenda della memoria pubblica e storiografica  della vittima.
Da subito, come è noto, il rapimento e l’omicidio di Matteotti destarono una fortissima emozione di orrore e di sdegno in tutta Italia.Non solo, ben presto, anche sull’onda delle comunicazioni e relazioni esistenti tra i principali uomini politici e giornalisti e intellettuali antifascisti e la stampa internazionale, il caso ebbe grande risonanza anche all’estero.
Nell’inevitabile schematizzazione della divulgazione giornalistica, i due nomi accostati, le due “M” contrapposte di Matteotti e Mussolini, divennero quasi un emblema: da una parte il giusto, coraggioso e irriducibile, che ha come arma solo la sua intelligenza e la sua eloquenza e dall’altra la brutalità del dittatore che usa senza scrupoli la violenza più efferata per far tacere per sempre quella voce di verità e di giustizia.
Del resto, un altro giovane e strenuo antifascista, Piero Gobetti, appena pochi giorni dopo il delitto, pubblicava un appassionato opuscolo dedicato al martire, nel quale proiettava sul segretario del Partito Socialista Unitario una immagine di eroica intransigenza morale, di solitaria lotta contro ogni viltà compromissoria con il regime, certamente veritiera sul piano morale, pur se sommaria sul giudizio politico. Sino a quel momento Gobetti non aveva risparmiato critiche sferzanti all’opportunismo e alla insipienza politica dei riformisti, ma proprio dopo il sacrificio di Matteotti, avvierà una revisione più meditata e meno ingenerosa di quelle sue posizioni.
Gravissimo fu invece il commento di Gramsci che, alcuni mesi dopo l’assassinio, definì Matteotti “il pellegrino del nulla”.
Più interessante sarà però la formazione di un sentimento popolare di devozione alla memoria del martire, che assumerà ben presto i tratti di una sorta di memoria religiosa, con la divulgazione di immagini e immaginette con il viso di Matteotti e la citazione di una frase a lui attribuita: “Ma l’idea che è in me non muore”. Quel culto tenacemente conservato nell’intimità di vite e storie familiari, di tanti proletari, operai e contadini, soprattutto i contadini poverissimi di quel suo Polesine allagato di miseria prima che dalle acque limacciose del Delta, seppe preservarsi tenace e segreto per oltre un ventennio, sino alla Liberazione.
Una fedeltà occultata per sottrarla alle angherie del regime, alle sue  vessazioni perquisitorie, ma soprattutto per salvarla silenziosamente dalla implacabile rimozione di una memoria che il fascismo avrebbe voluto estirpare definitivamente.

Come non cogliere dunque, in quella singolare comunione di sentimenti e di tacite connivenze, tramandate da una sponda familiare all’altra, una delle ragioni, sia pure non l’unica né forse neppure la prima, che permise all’idea socialista di riemergere come un fiume carsico dagli antri dell’oblio (così li chiamerà Hanna Arendt per designare la proterva determinazione del nazismo di cancellare con le tracce la memoria stessa della feroce sopraffazione).
Non si salvò così, nei secoli, il culto dei martiri? Né a torto si parlava già allora di apostolato socialista e il “Gesù socialista” non era soltanto una metafora simbolica, ma la concreta testimonianza di una fede nella libertà e nella giustizia quale veniva da una millenaria tradizione religiosa.
Culto tanto più sorprendente se si pensa che Giacomo Matteotti nulla concedeva alla retorica ridondante e al sentimentalismo persino melenso di tutta quell’epoca. Al contrario, la sua rigorosa analisi, la concretezza delle proposte, la lucida intuizione delle tendenze politiche non meno che economiche in atto ne facevano l’espressione di un modo moderno di vivere l’esperienza politica e l’impegno di una rappresentanza non paternalistica.  E tuttavia, proprio quell’asciuttezza di espressione, quell’intransigenza morale nel paese del trasformismo  e dei compromessi più mediocri, tutta quella sua diversità insomma, era probabilmente quello che lo aveva fatto istintivamente amare da quelle plebi rustiche,  vissute per secoli nell’ignoranza superstiziosa e credulona di una subalternità sentita come perpetua e che invece proprio uomini come Matteotti dimostravano non essere una condanna inespiabile, ma un impegno etico-civile da perseguire sino all’ultimo respiro.
E così ci appare in altra luce la naturale decisione di intitolare a Matteotti il nome delle formazioni partigiane di ispirazione socialista.

Il nome di Garibaldi scelto da quelle comuniste mirava ovviamente a garantirsi la immensa popolarità del massimo eroe del Risorgimento, che  tale era stato  anche nella lotta internazionale per la libertà e l’indipendenza di tutte le nazioni. Quel Garibaldi, non dimentichiamolo, che aveva proclamato essere il socialismo il sole dell’avvenire e che dunque poteva utilmente stornare i sospetti che quel partito comunista d’Italia fosse in realtà pur sempre un partito antinazionale ed eteroguidato da Mosca.
Ma dopo la Liberazione, la memoria di Matteotti viene come rattrappita nella nicchia del “martire della libertà e dell’antifascismo”, come se irrilevante fosse stata la sua fede nel socialismo riformatore e anzi da reputarsi questa come inadeguata e oscurata dal troppo franco rigetto del modello leninista-stalinista esaltato dal nuovo e potente partito comunista italiano scaturito dalla Resistenza e dalla lotta di Liberazione e dall’aureola irradiata dalla vittoria sovietica sul mostro nazista.
Così, anche a Matteotti,  come a Buozzi, toccò in sorte di essere rimpicciolito in quella icona di un martirio “generico” per la causa della libertà, quasi che il loro socialismo convintamente riformista e per nulla moderato fosse un accidente trascurabile di una storia che solo i comunisti e i loro fiancheggiatori socialisti nel primo decennio dopo il 1945,  avrebbero potuto scrivere  e capire nella sua verità più profonda e “rivoluzionaria”. 
Che i comunisti di quegli anni fossero in qualche imbarazzo di fronte alla memoria di  socialisti quali Matteotti e Buozzi è comprensibile. Assai meno che lo siano stati anche molti socialisti e comunque troppo a lungo.
Soltanto da poco  la storiografia più avveduta e non più settaria ha colto la grandezza di una vita, quella di Giacomo Matteotti, che merita ancora oggi una memoria attenta e ammirata. Quella appunto che subito gli tributarono i proletari e i popolani d’Italia.
Viene quasi da pensare, per riprendere il paragone con il lessico di matrice religiosa, che “ciò che fu incompreso  dai sapienti… fu invece svelato agli ignoranti e ai poveri in spirito”.

Marco Brunazzi