TERTIUM SEMPER DATUR: MA NON E’ LA TERZA VIA
Le elezioni europee pongono alla sinistra italiana seri interrogativi, se non si fa incantare dalla vulgata, che viene quotidianamente propinata dai mezzi di informazione: vittoria netta del Pd (e) di Renzi. che pur in fase di diminuzione della partecipazione elettorale incrementa in percentuale e in voti assoluti rispetto al 2013 e raggiunge una percentuale del 41%, un record per un partito italiano, a parte la DC di Fanfani.
Il successo è innegabile e il PD è comunque l’interlocutore essenziale per ogni alleanza vincente di centro sinistra e i suoi militanti, iscritti ed elettori ,in parte più o meno consistente, comunque necessari, soggettivamente e oggettivamente, per ogni ipotesi di sinistra nel nostro Paese e/o in Europa, a prescindere dalla fragilità di questa vittoria nel prossimo futuro.
Per una sinistra che si ripensi e conseguentemente si riorganizzi, c’è una questione pregiudiziale, cioè un giudizio sulla collocazione del PD sull’asse destra-centro-sinistra. Se il PD è giudicato/percepito come un partito di sinistra in senso lato, l’ultima incarnazione di un filone storico, politico e ideologico, che risale al PCI, poi PDS e infine DS, non riducibile alla sola eredità comunista, ma comprensiva degli apporti socialisti, cristiano sociali, repubblicani e laici ed infine della sinistra popolare democratica cristiana: piaccia o non piaccia individualmente non c’è altra scelta da fare che entrare nel PD e combattere al suo interno una battaglia per uno spostamento a sinistra delle sue scelte programmatiche. Una scelta, l’entrismo, rafforzata dalla decisione improvvisa, ma irrevocabile, di aderire al PSE. Soltanto una pregiudiziale anti-socialdemocratica potrebbe giustificare un rifiuto di principio di questa scelta. C’è soltanto un ostacolo, ma non di poco conto il PD non si è mai definito un partito di sinistra a partire dalla intervista di Veltroni al Pais all’indomani della sua plebiscitaria investitura come leader della nuova formazione. Già nel discorso del Lingotto la dialettica innovazione/conservazione faceva aggio sul binomio destra/sinistra. Fatta salva una breve parentesi bersaniana, sconfitta nelle urne nel 2013, il PD nel suo complesso e nella sua maggioranza non si definisce un partito di sinistra. Con l’elezione di Renzi alle primarie di fine 2013 la scelta è talmente chiara, che va rispettata. Con coraggio Renzi si è liberato di classici idola fori della sinistra dal finanziamento pubblico della politica al rispetto del ruolo del sindacato, in particolare della CGIL alla elettività degli organi delle amministrazioni territoriali e della stessa seconda Camera, il Senato, perciò di un organo comunque partecipe del processo legislativo. L’apice di una concezione leaderista e quindi di svalutazione dei corpi intermedi è la proposta di legge elettorale conosciuta come Italikum (che per un mio vezzo scrivo con la kappa). In Renzi l’autonomia della politica dal diritto è non solo praticata, ma anche teorizzata: soltanto con le sue riforme si può salvare l’Italia: il decisionismo del capo è giustificato dallo stato di necessità e quindi dall’emergenza. Sul piano della politica economica non può ignorare i vincoli degli impegni europei, può solo contrattare tempi più lunghi e una maggiore flessibilità giustificata dalle riforme istituzionali messe in cantiere, che ridurranno a regime la capacità interdittiva delle corporazioni e degli interessi organizzati intorno al settore pubblico che va ridotto attraverso le privatizzazioni.
Il sostegno alle politiche di Renzi è massiccio nei mezzi di informazione dalla carta stampata all’audiovisivo: Berlusconi anche all’apice del suo consenso politico non ha mai avuto un consenso così vasto e nelle elezioni europee ne ha tratto profitto. Il popolo italiano ha bisogno di rassicurazioni più della verità e se l’alternativa è tra speranza e paura, che vinca la speranza è umanamente giustificabile, tanto più assenza di una sinistra con vocazione maggioritaria, cioè rappresentativa di una cultura di governo con proposte alternative , ma credibili e realistiche. L’unica opposizione aveva innalzato le bandiere di un leader greco, giovane ed anche simpatico, ed anche non estremista. Tuttavia l’immagine data era quella di una testimonianza, che doveva vincere la battaglia della sopravvivenza, altro che alternativa di governo. La investe la stessa democrazia rappresentativa: dunque occorre contrapporre un altro modello di società. Paradossalmente questa radicalità non contraddice il realismo e il gradualismo perché legati alla scelta del consenso democratico, che impone di cercare il consenso della maggioranza sia nella conquista che nella gestione del potere. Bastano due scelte di fondo per caratterizzare la sinistra: difesa della democrazia a cominciare dal sistema elettorale e riduzione delle diseguaglianze, che hanno raggiunto livelli intollerabili e incompatibili con il comune senso di giustizia. Le terze vie non sono più praticabili perché non ci sono ricchezze vere o virtuali da distribuire ed anche il quadro istituzionale presenta mutazioni che non sono state analizzate a fondo nelle sue implicazioni: il capitalismo finanziario non ha bisogno dello Stato e neppure che la democrazia passi dallo stato nazionale, dove si è storicamente realizzata in parallelo, in Europa, con lo sviluppo del welfare state, ad istituzioni sovranazionali democratiche, quali le Federazioni. In particolare progressivamente si riducono i ruoli e i poteri delle assemblee elettive rappresentative a favore dagli esecutivi, anche grazie a leggi elettorali maggioritarie e al trasferimento di poteri al organizzazioni internazionali dominate dai governi ed ad accordi come il NAFTA e il TT&IP, attualmente in discussione a Bruxelles in assenza di ogni trasparenza.
Il capitalismo finanziario ha sue regole e istituzioni, che abbattono le barriere nazionali tradizionali, le agenzie di rating giudicano in modo inappellabile le politiche economiche dei governi, prescindendo dalla legittimazione democratica e dal consenso popolare, di cui dispongano. Progressivamente gli Stati nazionali sono svuotati dagli attributi classici della sovranità, quale il battere moneta, grazie a strumenti finanziari creativi, neppure trattati in mercati trasparenti. . Persino la guerra e la sicurezza sono privatizzate o privatizzabili (contractors e appalti a società private di video-sorveglianza, in generale l’estensione del Sesto Potere, come definito da Bauman) e la politica estera viene sottratta al monopolio della diplomazia: in Italia il caso dell’ENI è paradigmatico. Negli affari importanti l’amministrazione della giustizia è sottratta alla sfera pubblica, ma affidata a decisioni inappellabili di collegi arbitrali spesso istituiti nell’ambito di accordi internazionali neppure ratificati dai parlamenti (WTO-OMC per esempio) Se la democrazia è il governo dei poteri visibili è indubbio che gli spazi democratici si stanno restringendo, perché gli organi rappresentativi elettivi perdono poteri decisionali e persino di controllo, perché finalizzato ad assicurare una maggioranza preventiva all’esecutivo, cui sono subordinati: un paradossale rovesciamento del principio per il quale il governo deve rispondere al Parlamento. Il principio della divisione dei poteri, fondamento costituzionale sello Stato democratico, insieme con la garanzia di diritti (art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1793), comune alla forme di governo parlamentare e presidenziale, è stato superato in Italia con l’elezione diretta dei vertici esecutivi accompagnata da un premio di maggioranza nell’organo assembleare funzionale alla stabilità dell’esecutivo: una pericolosa concentrazione di potere sconosciuta ai sistemi presidenziali e semipresidenziali. Non solo, con le liste bloccate si è assegnato un potere enorme ai vertici di partiti, non soggetti ad una legge organica sui partiti politici come nel resto d’Europa e come richiesto dall’art. 49 della Costituzione.
L’individuazione dei problemi da risolvere e dei compiti da svolgere non è sufficiente per costruire un soggetto politico, l’esigenza di avere in Italia una sinistra con vocazione maggioritaria non può prescindere da un a sua concreta possibilità, perché se si rivolge a soggetti politici esistenti e già operanti nelle istituzioni deve anche rispondere all’esigenza di garantire, almeno apparentemente, la possibilità di rielezione. Se questa, peraltro, diventa l’unica motivazione il fallimento di un progetto politico diventa altamente probabile. Il punto di partenza è la crescente astensione dal voto, che alle europee del 25 maggio ha raggiunto un nuovo record. I non votanti non sono una categoria omogenea, ma un semplice confronto con elezioni passate, anche limitate alle elezioni 2008-2013 consente di concludere, he vi è una quita consistente di elettori insoddisfatti dell’offerta politica a sinistra. La somma del voto PD-PSI del 2008 di 12.450.791 voti è superiore di 1.247.560 all’eccezionale risultato del PD 2014, dovuto in grandissima parte al recupero di voto centrista precipitato dai 3.591.607 voti del 2013 ai neanche 200.000 voti del 2014.Il recupero della lista Tsypras, ammirevole per aver raccolto le firme e superato la soglia, è comunque stato parziale (1.108.457 voti) se confrontato sia con la Sinistra Arcobaleno 2008, che al complesso delle liste di sinistra alle europee del 2009 (Rifondazione Comunista-Sinistra Europea e SeL ottennero 1.986.286 voti): l’unico raffronto vincente è con i 765.188 voti di Rivoluzione Civile del 2013. Il M5S è diversamente apprezzato a sinistra, da un atteggiamento di attenzione positiva al disprezzo totale, ma penso si possa convenire che nel parlamento si opponga alle leggi elettorali e riforma e costituzionali proposte dal PD e che le motivazioni di protesta e cambiamento del voto pentastellato potrebbero coincidere con quelle di un movimento di sinistra: ebbene tra il 2013 e i 2014 sono mancati circa 2.900.000 voti. La base materiale per una sinistra alternativa non protestataria esiste, dunque si pone la questione su quali culture politiche si possa fondare. Si possono in questa fase soltanto formulare ipotesi, che sono nel contempo proposte da verificare sul campo. Poiché si tratta di superare una debolezza specifica della sinistra italiana in confronto a quella europea la prima cultura politica che sarebbe necessaria è quella socialista sia nelle sue componenti di sinistra riformatrice e progettuale, che di capacità di governo, quella del primo centro-sinistra. I socialisti sono dispersi in tutto l’arco politico che va dal PD alla sinistra antagonista, pare che il loro destino, ma a sinistra non sono i soli a condividerli, sia quello di scegliere tra essere testa di topo (in formazioni intellettualmente vivaci, ma senza peso politico) o coda del leone(testimonianza rassegnata nel PD), per usare un modo di dire spagnolo. I primi, ma non esclusivi interlocutori, nel reciproco interesse per non muoversi soltanto sul passato e nel presente, sono le componenti confluite in SEL, che nelle loro formazioni di origine(Rifondazione Comunista, DS e Verdi) hanno posto il problema di una rottura con le eredità del passato ed individuato in un socialismo europeo rinnovato ed idealizzato un possibile comune approdo. Una sinistra rinnovata su queste basi ha interlocutori naturali nei sindacati e nell’associazionismo (ARCI p.es.), come nel Terzo Settore e nel volontariato civile e, senza mitizzazioni, nei popoli viola o arancioni o di altri colori dell’iride che la fantasia der giovani saprà inventare. Nuova linfa per la formazione di una classe politica rinnovata potrebbe venire dalle pratiche di movimenti come quelli per i beni comuni o contro il precariato o dei comitati di base su problemi specifici di un territorio, che sono stati alla base del successo iniziale del M5S. Vanno individuate forme non rigide si dialogo e confronto e di sviluppo di azioni comuni, che dovrebbero avere come base comune iniziale la difesa e estensione della democrazia costituzionale repubblicana e la lotta alle diseguaglianze nello spirito dell’art. 3 c. 2 della Costituzione.
Felice Besostri, socialista
PRIME RIFLESSIONI DOPO LE EUROPEE
Le elezioni europee, in Italia, hanno determinato un quadro politico che è bene cercare di sviscerare secondo alcune coordinate di massima.
Ha vinto Renzi e il suo Governo, a ruota il suo partito. Gli alleati hanno fallito, sia NCD (che al netto dei voti UDC ha poco più del 2%) sia Scelta Civica, che è letteralmente scomparsa. Resta confermata la tesi che non c’è in Italia una destra democratica. Neanche la crisi del berlusconismo ha favorito un processo in tal senso. E anzi se non era per i giudici Berlusconi avrebbe sicuramente preso di più del fallimentare 16% delle Europee. Il che dimostra che non solo non c’è una destra democratica, ma neanche un sistema democratico efficiente, capace di contenere ed espellere per via politica, non giudiziaria, un fenomeno anti-sistema come Berlusconi.
La lista per Tsipras ha a mala pena superato lo sbarramento del 4%, mettendo insieme gli scarti di SEL, Rifondazione e un minimo di voto di opinione richiamato dall’appello di Spinelli, Ovadia e simili. Difficile dare un significato politico ad un risultato come questo. Difficile dargli cioè il valore di segnale di ripresa della sinistra. Tanto che il capogruppo SEL alla Camera Migliore ha subito chiarito in un’intervista a “Repubblica” che la sua prospettiva è e resta quella della confluenza nel PD ovvero della realizzazione di un “partito unico”. Coerentemente ha poi esplicitato la disponibilità di SEL a sorreggere il governo Renzi (dato l’indebolimento degli alleati di centro-destra). Di certo finché ci sarà SEL non ci sarà sinistra in Italia. Né un nuovo centro-sinistra. Solo la sconfitta del grumo di potere raccolto intorno a Vendola (Migliore, Ferrara, Smeriglio, Nieri, De Petris, ecc.) potrà aprire spazi ad un progetto di sinistra alternativo al “partito unico” con il PD. In questo senso speriamo che la Spinelli e Rodotà resistano (nella critica serrata a Renzi e nella ricerca di una alternativa). Anche se è tutto dire.
Quanto a Grillo ha sicuramente fallito. La sconfitta a mio avviso ha la seguente chiave di lettura: Grillo in verità ha vinto alle politiche del 2013 perché premiato da settori decisivi dell’elettorato non convinti (giustamente) della proposta “Italia Bene Comune” di Bersani e Vendola. Il voto a grillo Grillo è stato il grimaldello per eliminare l’ultimo della vecchia sinistra: Bersani appunto, pensionato dopo D’Alema, Veltroni, Fassino, ma poi anche Bertinotti, Diliberto, Mussi, Fumagalli, Vendola. Un’intera generazione di falliti.
Quando si riscriverà (a questo punto speriamo presto) la storia degli ormai venticinque anni seguiti al 1989 bisognerà concentrare tutte le risorse su questo fallimento. Sul disastro storico, dal punto di vista politico e della tenuta democratica, della generazione che ha diretto la sinistra italiana, moderata e radicale, dopo la caduta del Muro di Berlino. Altro che silenzio dei comunisti! Se un merito ha avuto Renzi è stato proprio quello di aver posto fine una volta per tutte a queste biografie. I ‘nuovi’ (e le ‘nuove’) che hanno preso la guida del PD e del Paese (non ancora di SEL e della sinistra) peggio di chi li ha preceduti certo non potranno fare.
In ogni caso dopo Bersani non restava che Renzi. E quando hai Renzi non hai bisogno di Grillo. Quando hai uno che abolisce il finanziamento pubblico ai partiti, ‘abolisce’ il Senato, dà 80 euro ai poveri, fa pagare le banche, taglia gli stipendi ai grandi burocrati, manda in galera Genovese, ecc., quando hai uno così, l’erba sotto i piedi al populismo è tagliata. Il populismo di governo svuota quello di piazza (per questo in Italia il 25 maggio non si sono avuti i casi Farage o Le Pen). Certo la politica è un’altra cosa; ma sul piano elettorale può funzionare. Concludendo queste prime considerazioni post-voto, credo si debba ricominciare a ragione in due direzioni: una direttamente politica (PD, SEL, sinistra, centro-sinistra), l’altra afferente la qualità della nostra democrazia. Le due linee evidentemente si intersecano. Molti analisti hanno proposto un confronto fra un PD portato al 40% dal non-comunista Renzi e la Democrazia Cristiana. Certo non si tratta di dire che il PD è eguale alla DC, che non significa niente. Semmai di notare che il problema classico della democrazia italiana rimane intatto. Uno storico del cattolicesimo democratico come Agostino Giovagnoli ha potuto scrivere, all’indomani delle Europee, che il PD deve svolgere lo stesso compito di “partito-pivot” del sistema svolto a suo tempo dalla DC. Se l’Italia della Prima Repubblica era per definizione una ‘democrazia bloccata’, secondo Giovagnoli “come ha fatto la DC a suo tempo, anche il PD renziano sta assumendo oggi i tratti del ‘partito italiano’”, cioè di centro inamovibile del sistema. Anche Franco Monaco (altro democristiano!) individua nel PD il nuovo “partito italiano” o “partito pigliatutto”, pur individuando i termini del problema nell’“evoluzione della democrazia italiana quale democrazia competitiva ovvero consociativa”. Dove però la domanda da porre è anch’essa ‘storica’: se il PD è “partito pigliatutto”, come mai potrà andarsi oltre la “democrazia consociativa”? Non sorprende poi, dal nostro punto di vista, che anche Reichlin sull’“Unità” definisca quello di Renzi “partito della nazione” ovvero “partito-società” (e per fortuna ci risparmia “partito-Stato”).
Come si vede questione politica e questione democratica si incrociano anche in questa nuova e a suo modo inedita fase politica. Se la sinistra vuole rimotivare la sua funzione storica deve riuscire ad andare proprio essa oltre la logica della democrazia bloccata o “consociativa”. Porre questo come problema decisivo. In Italia e in Europa (dove si annuncia l’ennesima “grande coalizione”). Certo per farlo bisogna superare tanto la prospettiva del PD come nuova DC, quanto SEL come variabile dipendente (dal PD). Sono queste infatti oggi le forze di blocco del sistema.
Ripartire per la sinistra è difficile ma non impossibile. La ‘lista Tsipras’ potrà trovare un senso politico post-elettorale solo se si mostrerà in grado di aprire una fase costituente (non limitandosi ad aspettare il momento buono per entrale nel PD). Decisivo è imboccare la via giusta. L’unica che potrà mettere gli interlocutori di fronte alle loro ambiguità e contraddizioni (riaprendo spazi di iniziativa politica e recupero di consenso).
E la via giusta è appunto quella di una strategia di alternativa, per la sinistra e per la democrazia. Solo così si potrà contrastare quel tripolarismo Renzi-Berlusconi-Grillo che al momento sembra assorbire tutte le risorse politiche del sistema, tenendolo bloccato alla sua storica disfunzionalità.
Fabio Vander