«Note per l’assemblea di PASSIGNANO

La democrazia ha avuto il suo massimo sviluppo nella ambito dello Stato nazionale, come anche il welfare: allargamento progressivo del diritto di voto fino al suffragio universale libero, diretto e segreto, divisione dei poteri, indipendenza della giurisdizione, tutela delle minoranze, principio di uguaglianza, processi elettorali periodici e competitivi, allargamento progressivo dei diritti di libertà individuali ai diritti sociali collettivi, in particolare dopo la seconda guerra mondiale del XX° secolo.

L’integrazione economica su base continentale, come la costruzione progressiva di una comunità europea, ha limitato la sovranità degli Stati, come anche le sempre più numerose convenzioni internazionali. Ciononostante questi ordinamenti giuridici non costituiscono di per sé una limitazione dei diritti democratici, anzi spesso ne hanno garantito l’estensione, come con la “Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali” e più di recente la “Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea”.

Pertanto, nel loro concreto sviluppo gli ordinamenti sovranazionali ed internazionali, in sé, non rappresentano un pericolo per la democrazia, semmai possono essere uno strumento per la sua estensione: hanno, infatti, una dimensione parlamentare espressione dei parlamenti nazionali eletti a suffragio universale, e i Parlamenti stessi sono comunque chiamati a ratificare le convenzioni internazionali e le istituzioni sovranazionali (Consiglio d’Europa, O.C.S.E, NATO e IN.CE); nel caso della UE, godono addirittura di una diretta legittimazione popolare. Semmai si può rimproverare al Parlamento italiano di non dedicare la necessaria attenzione all’attività delle delegazioni parlamentari negli organismi internazionali e di non dedicare tempo alla fase ascendente delle normative comunitarie, quando gli interessi nazionali potrebbero essere meglio tutelati insieme al bilanciamento fra interessi dei cittadini e spinte lobbistiche di altri poteri economici.

Il pericolo piuttosto viene da quelle istituzioni di carattere economico, finanziario e commerciale (ad es. FMI), nelle quali sono rappresentati i governi, con esclusione di ogni controllo e di potere di indirizzo dei parlamenti nazionali. In taluni casi i Parlamenti neppure hanno partecipato alla costituzione di tali istituzioni economiche sovranazionali, come nel caso del OMC-WTO, benché abbiano poteri enormi di limitazione della sovranità degli Stati membri. La sovranità politica degli Stati è ulteriormente minacciata dalla globalizzazione economica e dall’estensione di mercati finanziari, che quando sono regolati, lo sono da organi dei singoli Stati (SEC, Consob e organismi analoghi per i mercati finanziari e Authority antitrust per la tutela della concorrenza) o in misura ridotta regional-continentali, ma non da un sistema globale di controlli trasparenti e uniformi senza eccezioni, come accade per i paradisi fiscali.
Non è messa qui in discussione la libertà di commercio e di investimento se la concorrenza è equa e la competizione non è alterata dalla mancanza di libertà politiche e sindacali, da lavoro minorile generalizzato, da forme di lavoro semi-forzato e dall’assenza di rispetto delle norme sulla sicurezza dei luoghi di lavoro e di tutela ambientale.
I gruppi finanziari e le imprese multinazionali, con la complicità o nell’indifferenza degli Stati dove hanno il loro quartier generale, grazie ai mezzi di cui dispongono – superiori alle entrate iscritte nei bilanci di molti Stati, o addirittura del loro PIL – sono in grado di determinare le politiche economiche e sociali nazionali, anche contro gli interessi delle popolazioni interessate, con i soli mezzi di pressione leciti. Quando questi non fossero sufficienti, anche ricorrendo a pratiche corruttive, a campagne di disinformazione attraverso i mezzi di comunicazione di massa, fino agli estremi della destabilizzazione politica, senza fermarsi neppure davanti alla guerra civile o a colpi di Stato.
I gruppi finanziari-industriali si sottraggono ad ogni responsabilità per le loro azioni sia quando emettono titoli diventati tossici (quelli fondati sui mutui sub-prime), ovvero privi di qualsivoglia base reale (i titoli derivati rappresentano un valore multiplo di ‘n’ volte il PIL mondiale) e la cui negoziazione è sottratta ad un mercato pubblico e trasparente. Possono provocare crisi globali tali da costringere gli Stati ad intervenire massicciamente con iniezioni di liquidità nel sistema bancario e creditizio o a sostegno delle grandi imprese, senza ricevere o imporre alcuna contropartita: né di controllo delle loro politiche, né di interruzione di pratiche rischiose, o di riduzione/eliminazione dei premi ai loro manager, indipendentemente da risultati consolidati nel tempo. Per colmo di paradosso, l’esposizione degli Stati, nella logica di pubblicizzazione delle perdite dopo anni di incontrollata privatizzazione dei profitti, anche se fittizi, o gonfiati da bolle speculative, ha portato a declassare il rating del debito pubblico degli stessi Stati grazie ai giudizi di agenzie poco avvertite sui titoli tossici, e la cui struttura di controllo lascia grossi margini di dubbio sulla loro autonomia dagli interessi proprietari.

Il futuro della democrazia è strettamente legato alle vicende economiche, proprio per l’intreccio esistente fra economia e politica e per la commistione fra interesse pubblico e interesse privato, che non possono essere liquidati con formulette del tipo “Più società e meno Stato”.

La società non è la stessa se prevale l’individualismo egoista, ovvero sia una società di uomini e donne liberi e uguali, se i valori condivisi sono quelli dell’arricchimento e del successo personale ad ogni costo, ovvero quelli della solidarietà, quale che sia la motivazione religiosa o laica che li ispira. Se la società si confonde col mercato e il mercato con il sistema capitalista, e tutto fosse ridotto a una merce che si può vendere o comprare − compresa la propria dignità − sarebbe giusto domandare meno società e più responsabilità collettiva e pubblica. Pubblico non è necessariamente sinonimo di statale, e non è la stessa cosa se lo Stato è uno stato democratico o autoritario, se è uno Stato centralista o articolato in autonomie territoriali, con un grande spazio per la cooperazione e il mutualismo ed altre forme di autonomia organizzativa sociale, cioè di formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (come sancisce l’art. 2 Cost.) con i connessi doveri di solidarietà politica, economica e sociale.
Mettere al centro i rapporti tra la politica e l’economia come fatto decisivo per le sorti della democrazie è l’insegnamento che dobbiamo trarre dalla crisi e, soprattutto, da quello che ne è seguito, perché mette in luce la dimensione planetaria − e quindi extraterritoriale − della finanza, la limitatezza degli ordinamenti giuridici statual-nazionali e l’inadeguatezza delle risposte regional-continentali come l’Unione Europea, frenata dalla timidezza di passare ad una fase superiore di integrazione politica, cioè a una compiuta forma di Stato sociale federale.
La debolezza della costruzione europea emerge proprio in questa temperie di attacco al debito pubblico di alcuni Stati, come attacco reso possibile dalla mancata istituzionalizzazione dell’Euro, cioè di una moneta comune alle cui spalle non c’è un governo e una vera e propria banca centrale, come prestatore di ultima istanza.
Un’Europa federale con gli strumenti degli Stati Uniti sarebbe stata troppo grande per essere oggetto di un attacco speculativo. L’attacco alla Grecia ha dimostrato che (come) l’Europa era (sia) un’entità non dotata di una governance unitaria, determinata a difendere gli interessi dell’UE nel suo complesso, ma di una conduzione bi-nazionale franco-tedesca. Un potere di fatto slegato da una legittimazione democratica e da una reale condivisione delle scelte da parte dei popoli europei e, pertanto, instabile, umorale e sottoposto alla pressione di un’opinione pubblica spesso non informata, frammentata, non pienamente consapevole della posta in gioco e, per di più, con interessi economici sottostanti confliggenti.

Proprio la crisi ha mostrato la necessità di fare un check-up alla Costituzione. In Islanda un’assemblea elettiva di un migliaio cittadini ha nominato un Consiglio Costituzionale di 25 membri, che ha già redatto un progetto di Costituzione più robusta, volto a rimediare alla debolezza e vulnerabilità della loro democrazia (La Presidente del Consiglio Costituzionale Salvör Nordal: una nuova Costituzione perché la crisi finanziaria ha dimostrato come “fosse debole e vulnerabile la nostra democrazia”). Al contrario, in Europa le riforme costituzionali invocate quale rimedio alla crisi democratica (monocameralismo, premierato forte, leggi elettorali fortemente maggioritarie e costituzionalizzazione del vincolo di bilancio in primis) mirano a limitare surrettiziamente gli spazi democratici e la sovranità popolare, principio cardine della democrazia e presupposto legittimante di ogni decisione pubblica.

Scelte importanti debbono essere prese con il coinvolgimento della popolazione, come in Islanda: è stato un referendum a respingere il salvataggio delle banche responsabili della crisi (in realtà dei detentori stranieri dei loro titoli, ormai privi di valore). L’argomento della complessità dei problemi, tale da non poter essere decisi da un referendum (consultazione popolare), non tiene a fronte del fatto che i sacrifici avrebbero dovuto essere sopportati da quelli che “non avrebbero capito”. La democrazia rappresentativa, che si è costruita in un processo secolare, è capace di far fronte a qualsivoglia problema, sempre che la decisione sia preceduta da un ampio dibattito pubblico, dentro e fuori dalle istituzioni, con la partecipazione di una pubblica opinione informata. Tra i presupposti (essenziali, infatti,) di una democrazia funzionante vi è la completezza e la trasparenza dell’informazione, cioè media indipendenti e non al servizio di interessi particolari, e un servizio pubblico di radio-televisione non al servizio del governo o di un sistema politico arroccato nella propria difesa, come se fosse una “casta”. Non vi è libertà di scelta senza libera circolazione delle idee, libertà di stampa e, non ultima, libertà dal bisogno.

Per questi motivi è sempre più necessario, in un sistema mediatico-informativo controllato da gruppi economici e di pressione chiaramente orientati alla conservazione del proprio potere, garantire la libertà delle rete internet, a livello nazionale e globale, e la libertà di circolazione delle idee su canali liberi e paralleli a cui i cittadini abbiamo libero accesso, non più solo come fruitori, ma come autori delle informazioni. Nell’impossibilità di incidere direttamente sulla libertà dei media l’unica risposta possibile è quella di implementarne quantomeno il pluralismo delle voci. Per questi motivi, e parallelamente, la democrazia richiede che tra i cittadini non vi siano tali differenze di reddito e di possibilità di ascesa sociale, da creare una minoranza di privilegiati in grado di controllare i poteri pubblici e i mezzi d’informazione: senza i condizionamenti culturali e psicologici imposti dai gruppi dominanti non si spiega il paradosso, per cui le elezioni non si vincono senza l’apporto degli strati più poveri, ovvero senza la loro astensione dai processi elettorali a causa della frustrazione delle loro aspettative.

Il modello classico di ‘democrazia rappresentativa’ è sotto accusa per molti aspetti, critiche soltanto in parte fondate, in parte evidentemente strumentali e dirette alla ‘rottamazione della democrazia’, piuttosto che alla sua implementazione e perfezionamento. Da un lato, la si accusa di non essere all’altezza dei problemi sempre più complessi, che richiedono capacità decisionale rapida, e si chiede il superamento delle procedure considerate una ‘perdita di tempo’ e si auspica la supremazia di tecnici ed esperti rispetto a politici generici, dall’altro di non aver risolto i problemi degli strati più svantaggiati. Rispetto ad essi la classe politica è, anzi, percepita come sempre più distante. Peggio, è spesso da questi ‘bisogni’ che trae larghe sacche di consenso, secondo uno scambio scellerato di voti contro ‘piaceri’, che inquina alla base la libertà di scelta dei propri rappresentanti ed impedisce una selezione virtuosa e meritocratica della classe dirigente, soprattutto nelle aree più depresse del Paese.
La crisi dei partiti non è estranea a questa disaffezione e scollamento fra volontà popolare e decisioni di vertice, sia per i criteri di reclutamento del proprio personale dirigente, che dei rappresentanti nelle istituzioni. Nel frattempo, con un processo ben descritto da Colin Crouch nel suo libro “Postdemocrazia”, i gruppi dirigenti dei partiti si legano a gruppi di pressione o di interesse, con la mediazione dei tecnici ed esperti di reciproca fiducia, che ne determinano le scelte politiche in misura molto superiore alla volontà degli iscritti o alle decisioni degli organi statutari.

In Italia la situazione è aggravata dalla mancanza di una legge organica sui partiti politici in attuazione dell’art. 49 della Costituzione, che ne garantisca il funzionamento interno secondo il c.d. “metodo democratico”, la trasparenza del finanziamento, i controlli giurisdizionali e contabili. Un colpo di grazia alla credibilità democratica è stato inferto dalla legge elettorale vigente. Questa, inserendo il meccanismo delle liste ‘bloccate’ e preconfezionate dall’alto nelle Segreterie politiche, ha reciso ogni rapporto, anche formale, tra elettori e rappresentanza, determinando la scomparsa persino del nome dei candidati sulla scheda elettorale e la sostituzione con il nome del capo politico, secondo una simulazione di elezione diretta del Premier vietata dalla Costituzione. Di più, l’attribuzione di un premio di maggioranza abnorme − perché svincolato da ogni quorum in voti o in seggi − ha definitivamente archiviato il modello di rappresentanza democratica proporzionale dei cittadini a cui era chiaramente ispirata la Costituzione e l’uguaglianza e la libertà del voto (prevalenza del voto utile rispetto all’adesione politico-programmatica). Tale meccanismo resiste malgrado le censure della Corte Costituzionale formulate fin dal 2008 con le sentenze n. 15 e 16.

I guasti di quella legge sono sotto i nostri occhi: il Parlamento non agisce nell’interesse della Nazione, perché non la Nazione li ha fatti eleggere, ma la benevolenza dei capi partito. Ne discendono a cascata gravi anomalie, come il superamento del divieto di mandato imperativo, il blocco nel ricambio della classe dirigente, il proliferare di una legislazione protezionistica della ‘casta’, gravi limiti all’autonomia dei singoli parlamentari, svuotamento delle funzioni legislative del Parlamento, ridotto a camera di registrazione dei provvedimenti governativi.

L’indignazione, anche nei confronti dei privilegi, sia veri che presunti, della “casta” alimenta il rischio che non prevalgano movimenti di riforma della politica, ma di rivolta antipolitica, base di partenza di involuzioni autoritarie ammantate da ‘tecnocrazia’. Se i costi della democrazia son confusi con quelli della politica i risparmi si fanno a danno degli organi rappresentativi, con la riduzione del numero degli eletti o degli organi elettivi, invece che dei loro compensi, o del costo degli apparati. Così si formulano richieste contradditorie come il dimezzamento dei parlamentari e la scelta da parte degli elettori dei propri rappresentanti, che presuppone collegi piccoli ovvero la riduzione mediante concentrazione dei Comuni impossibile con la contestuale previsione di un minor numero dei consiglieri e leggi elettorali maggioritarie: i Comuni più piccoli che si unissero potrebbero non avere rappresentanza nel futuro Consiglio comunale unificato.

I limiti della democrazia sono soltanto i limiti alla democrazia, che si rafforza soltanto se si espande e si estende a tutti gli aspetti della vita organizzata, dalle assemblee delle società per azioni, alle associazioni di categoria e agli utenti dei servizi pubblici e ai consumatori in genere, con istituti di partecipazione dei cittadini al controllo e alla gestione delle pubbliche istituzioni (decentramento amministrativo, bilancio partecipato, class action e azioni popolari con acceso alla giustizia amministrativa a costi contenuti in caso di tutela di interessi collettivi al paesaggio, all’ambiente, alla salute, all’istruzione, all’informazione e alla trasparenza dell’azione amministrativa). La democrazia rappresentativa va riaffermata ripristinando il rapporto reale e diretto fra eletti ed elettori e rafforzata con l’estensione di istituti di democrazia partecipativa e diretta, che contrapporre è errato: la manipolazione della volontà dei cittadini può avvenire sia alterando il processo elettorale, come nelle assemblee o nei cortei, sempre in balia di minoranze decise ed organizzate.
Quest’anno ha visto le masse di cittadini protagoniste di cambiamenti epocali come nella Primavera araba e in questo caldo autunno americano, nel quale gli obiettivi anti-sistema sono chiari ed evidenti, con una determinazione senza precedenti del movimento “Noi siamo il 99 per cento”. Proprio questa constatazione, che una minoranza comanda e la maggioranza paga per tutti, è la miglior testimonianza a favore della democrazia rappresentativa, che si regge sul principio una persona un voto: il 99% dovrebbe prevalere sull’1%, come il 10% delle famiglie più ricche, che in Italia controlla il 47% della ricchezza nazionale, dovrebbe concorrere in proporzione al risanamento delle finanze pubbliche, cui comunque il 90% restante − se la democrazia non fosse teorica − potrebbero legalmente costringere la minoranza con leggi perfettamente in sintonia con la Costituzione (art. 53- “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”).

In un contesto di integrazione di democrazia rappresentativa e partecipativa, partiti e movimenti hanno specifici campi d’azione, anche se non esclusivi almeno preferenziali o elettivi. Nei loro diversi ambiti e funzioni devono poter interagire salvaguardando le loro autonomie come del resto accade per i sindacati, che non sono contrapposti ma integrati in un sistema dialettico democratico come portatori in istanze e interessi specifici. I comitati referendari sui beni comuni e contro il nucleare hanno dimostrato l’efficacia di movimenti con obiettivi chiari e concreti e perciò percepiti come più vicini alle istanze popolari e ad un modello organizzativo aperto e democratico. Più difficile e tormentata è la vita di movimenti compositi, privi di un gruppo direttivo riconosciuto e perciò autorevole, come gli “Indignati del 15 ottobre”. Il movimento, nato il Spagna e diffusosi fra giovani e meno giovani di tutto il mondo, è stata l’unica reazione politica globale alla crisi ed alla prevaricazione del sistema capitalistico sugli interessi statali e sui diritti dei cittadini.

Ciononostante le variabili nazionali della protesta, la diversa composizione del movimento e l’assenza di un coordinamento interno e sovranazionale ne ha condizionato, finora, l’incisività e la capacità di risultato. È il caso del movimento italiano che, arrivato alla manifestazione del 15 Ottobre numerosissimo, ma poco organizzato ed attrezzato − anche rispetto a gruppi estremisti minoritari determinati a far degenerare in violenza il corteo − è stato travolto dalle strumentalizzazioni mediatiche, tanto da compromettere nell’immediato il raggiungimento dei suoi obiettivi.
Le riforme costituzionali e della legge elettorale non sono state poste al centro dell’azione politica della sinistra, ne sono dimostrazione la raffazzonata e strumentale modifica del Titolo V della parte seconda della Costituzione. Inoltre sempre la sinistra ha fornito il modello elettorale del “porcellum” tramite la legge elettorale regionale toscana. Soprattutto l’opposizione ha condiviso le scelte maggioritarie e bipolari del sistema elettorale, subordinando le assemblee all’esecutivo e perciò rovesciando i principi di più di 200 anni di evoluzione democratica. La governabilità è diventata prima una priorità, prevalente rispetto alla rappresentanza, poi un’ossessione, cui tutto sacrificare. La stessa elezione diretta dei vertici esecutivi non comportava necessariamente una così drastica limitazione − in misura senza paragoni in Europa − delle competenze dei Consigli comunali, provinciali e regionali, e, peggio ancora, di legare la loro durata alla volontà del capo dell’esecutivo. L’improvvisazione ha raggiunto il suo apice con la discussione sulle Province, cresciute di numero con la complicità di tutti per opportunismo locale, costituzionalizzate nel 2001 ed ora da abolire sotto la spinta di un’opinione pubblica aizzata dai mezzi d’informazione: in un tale contesto sarà difficile discutere di riduzione delle province, delle funzioni di un ente intermedio tra Comuni e Regione e di nuove forme associative tra comuni.
Proposte per il dibattito:

1) La nostra Costituzione non ha bisogno di essere stravolta, come tentato dal governo, con un progetto fortunatamente respinto dal popolo italiano nel referendum costituzionale del 2006, ma di essere innanzi tutto attuate e, dove necessario, adeguata all’evoluzione della realtà sociale. Centrale è il tema dei diritti e della loro completa attuazione accanto all’adempimento dei doveri.

2) La dettagliata elencazione dei diritti, anche nei documenti sovranazionali, è sempre più inversamente proporzionale alla loro attuazione. Il ‘condizionamento economico’ poi alla attuazione dei diritti sociali è l’argomento che ne ha trasformato il carattere da diritti fondamentali a diritti eventuali. L’attuazione del federalismo fiscale, poi − secondo un modello che disconosce reali misure perequative a tutela dei diritti alla salute, all’istruzione, all’assistenza sociale ecc. − ha ulteriormente frantumato la ‘cittadinanza sociale’ e abrogato di fatto il principio di solidarietà. In ciò si iscrive la scarsa vincolatività del principio, soprattutto per ciò che attiene l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale (art. 2 Cost.) e l’inattuato principio di proporzionalità nell’imposizione fiscale su redditi e patrimoni.

3) Per tali motivi, risulta improrogabile, dopo più di 60 anni dall’entrata in vigore della Costituzione, pretenderne l’attuazione, chiedendo l’abolizione di ogni distinzione tra norme di immediata applicazione e norme programmatiche, tra ‘vincolatività piena’ delle leggi e ‘valore di mero indirizzo’ dei principi costituzionali. L’attuazione dei principi e delle norme programmatiche deve essere − com’era nella volontà dei Costituenti – obiettivo preliminare e primario per ogni programma di governo e per ogni indirizzo politico, indipendentemente dall’orientamento e dalle coalizioni. Le forze politiche devono concorrere fra loro, semmai, all’elaborazione delle strategie più efficaci per la migliore attuazione del ‘Programma costituzionale’, senza il quale ogni ‘programma politico’ è monco e delegittimato. In ciò sta la prima, indifferibile responsabilità di uno Stato realmento democratico, di un moderno Stato sociale di diritto, della sua classe politica.

4) Il carattere della ‘programmaticità’ deve abbandonare definitivamente anche alcuni fra i diritti fondamentali dalla cui garanzia effettiva dipende l’esistenza stessa dello Stato democratico: a partire dal lavoro. Alla priorità di una crescita cieca, che non bada alla effettiva distribuzione della ricchezza e alle pari opportunità nel garantire il “pieno sviluppo della persona umana” (art. 3 Cost.) deve sostituirsi quella del lavoro e di un nuovo modello di produzione e di crescita economica e sociale. Per questo, accanto all’attuazione del modello di imprenditorialità partecipata (art 45 Cost.:“Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”), è necessario introdurre nuovi diritti fondamentali, come il diritto alla protezione dell’ambiente (come naturale complemento della tutela del paesaggio, art. 9, e della salute, art. 32 Cost.) e i diritti all’accesso alle reti informatiche e ad una informazione completa e corretta, quale necessario complemento alle libertà di informazione, di stampa, di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.). Lo stesso sforzo di coordinata attuazione deve prodursi per la maggior parte delle norme in materia di rapporti economici e sociali, in cui la nostra Costituzione è all’avanguardia (artt. 35, 36, 37, 38, 41, 42, 43, 44, 45 e 46), ma soffre di una ‘disapplicazione’ normativa e di un’interpretazione della giurisprudenza, estremamente timida e non adeguata al rango dei valori costituzionali protetti.

5) Costituzionalizzazione della categoria dei ‘beni comuni”, con relativo vincolo di inalienabilità e divieto di sfruttamento economico in contrasto con l’interesse dei cittadini e della popolazione.

6) Introduzione della categoria delle ‘leggi organiche’, sul modello di quelle francesi e spagnole, leggi che per dover essere approvate con la maggioranza assoluta delle Camere si collocano tra le leggi costituzionali e le leggi ordinarie e dovrebbero regolare con una temporale maggiore stabilità le riforme di settore, come ad esempio l’istruzione, il sistema fiscale, l’ordinamento dei partiti ed elettorale, il sistema delle autonomie territoriali e delle leggi finanziarie e di bilancio, per fare alcuni esempi.

7) No alla costituzionalizzazione del ‘pareggio di bilancio’ perché introduce pericolose rigidità nella politica economica, limita le potenzialità di crescita del Paese in periodi di trend positivo, blocca in origine ogni spesa sociale in periodi di crisi, tacciandola come costo piuttosto che come investimento e funzione ineliminabile delle politiche statali. Peggio, ribalta il rapporto democratico cittadino-Stato-mercato, sovraordinando le ragioni di un ‘monetarismo assoluto’ alla sovranità popolare, le scelte lobbistiche alla volontà dei cittadini e al potere politico. Una più rigorosa applicazione dell’art. 81, 4° comma Cost. − “Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte” − è più che sufficiente ad impedire la crescita dell’indebitamento pubblico.

8) riforma del controllo di costituzionalità con previsione di ricorso diretto dei cittadini in caso di violazione di diritti costituzionali fondamentali sul modello spagnolo e tedesco e con la previsione, in caso di soluzioni multiple all’eccepita incostituzionalità di norme, che la Corte Costituzionale fissi un termine per l’efficacia della decisione di incostituzionalità affinché il legislatore possa deliberare. Assegnare alla Corte Costituzionale i ricorsi contro le decisioni delle Camere sull’eleggibilità dei loro componenti ai sensi dell’art. 66 Cost. ovvero in caso di inerzia delle stesse a pronunciarsi in un termine prefissato e, sul modello tedesco, di potersi pronunciare d’ufficio sulla costituzionalità delle norme elettorali applicabili.

9) Riduzione del numero dei parlamentari, ma non in modo da compromettere un effettivo legame con il territorio e gli elettori dei candidati, soprattutto riforma delle indennità e dei rimborsi, con la riduzione della parte fissa rispetto a quella variabile in modo da collegarla a un’effettiva e comprovata partecipazione alle attività parlamentari, compresi i lavori in commissione e la partecipazione alle votazioni. Fissazione di indennità e rimborsi in ammontare analogo a quello di paesi di dimensione paragonabile a quella italiana (Francia, Germania e Gran Bretagna).

10) Differenziazione dei compiti e competenze di Camera dei Deputati e Senato della Repubblica, con la sola Camera dei Deputati responsabile della fiducia al Governo e Camera di ultima decisione in caso di differenze tra i due rami del Parlamento, tranne che nel caso si incida sulle competenze concorrenti di Stato e Regioni (art. 117 c. 3 Cost.).

11) Riduzione del numero dei consiglieri regionali da rapportare alla popolazione e indennità commisurate alla entrate proprie delle singole regioni. Riduzione per accorpamento delle Provincie in ragione delle effettive esigenze del territorio e ridefinizione delle loro funzioni.

12) Previsione di esame obbligatorio da parte delle Camere dei progetti di legge di iniziativa popolare e possibilità, in caso di inerzia, che i promotori possano provocare un referendum confermativo/approvativo se richiesto dallo stesso numero di elettori per i referendum abrogativi (art. 75 Cost.) e con facoltà per il Parlamento e/o il Governo di sottoporre un progetto alternativo sul modello svizzero.

13) Legge di attuazione degli articoli 39 e 49 Cost. su Sindacati e Partiti, con Statuto di rilevanza pubblica, obbligo di registrazione e con previsione di requisiti minimi per la registrazione (congressi periodici, statuti a base democratica, possibilità di ricorso alle giurisdizione degli iscritti in caso di violazione delle norme statutarie, controlli della Corte dei Conti − o di Authority ad hoc − su bilanci e finanziamenti).

14) Riforma del sistema elettorale, abrogazione del ‘porcellum’ (di sospetta incostituzionalità) e ripristino della possibilità di scelta dell’elettore sui candidati. Attuazione dell’art. 51 Cost. in relazione alla parità di accesso di uomini e donne alle cariche elettive pubbliche. Progressivo inserimento del ‘voto elettronico’ e allargamento delle sezioni elettorali per impedire il riscontro dei voti espressi nello spoglio.

15) Contrarietà assoluta all’abrogazione del divieto di mandato imperativo( art. 67 Cost.” Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”), tuttavia previsione, in caso di cambio di gruppo parlamentare di prima iscrizione, che un numero predeterminato per legge degli elettori della circoscrizione elettorale possa chiedere la decadenza/revoca dal mandato parlamentare con votazione estesa al corpo elettorale del collegio e contestuale elezione suppletiva ovvero con subentro di candidato della lista originaria, mediante applicazione degli stessi criteri di sostituzione in caso di rinuncia o dimissioni del candidato proclamato eletto.

di Anna Falcone e Felice Besostri