di Alfonso Gianni (Pubblicato su Il Manifesto)|

Se un pregio lo hanno le esternazioni dalemiane di fine anno è quello di alzare impietosamente il velo sul “piccolo mondo antico” della sinistra. Quelle parole hanno creato non poca turbolenza su entrambi i versanti, nel Pd e in Articolo Uno, ovviamente con opposte motivazioni. Saranno gli aderenti a quest’ultima organizzazione  a decidere della loro sorte nelle sedi opportune che siamo tenuti a rispettare. Ma già prima avevamo compreso, da altre voci, che era in atto un progressivo sfarinamento di Leu, realtà peraltro già virtuale, arroccata nelle istituzioni ma assente in quanto tale nella società. Le cause non risiedono solo nella scelta, con l’eccezione della navicella di Sinistra Italiana, di collocarsi al governo entro il perimetro draghiano. Ma sono più profonde e più lontane.

Lo evidenzia, per converso, la diagnosi minimalista e quindi sbagliata di D’Alema sul Pd, che sarebbe stato affetto da una malattia, il renzismo, della quale sarebbe ora guarito. In realtà, dalla svolta della Bolognina in poi, attraverso i vari e significativi cambiamenti di nome e di assetto, abbiamo assistito a un percorso di fuoriuscita dalla storia del movimento operaio di questa forza politica. Un approdo ben più grave, credo irreparabile, di una sterzata a destra della linea politica, che ha portato con sé l’abbandono di referenti e legami sociali, dell’idea di una trasformazione seppure graduale della società, di strutture organizzative basate sulla partecipazione degli aderenti e su un insediamento sociale, per schiacciare le prospettive politiche sull’aggiustamento del presente, di cui la priorità del governo su ogni cosa è la manifestazione più evidente. Ma è inutile negare che questo percorso ha avuto ed abbia tutt’ora una forza di attrattiva giocata su un malinteso realismo. Questo processo non poteva essere contrastato, e infatti non lo fu, raccogliendo semplicemente le antiche  bandiere dismesse.

Ma neppure sperando che la spinta di movimenti reali e innovativi fosse sufficiente per dare vita ad una nuova forza politica della sinistra. I frequenti appuntamenti elettorali sono stati più d’ostacolo che di aiuto. A distanza di cinquant’anni il monito della Rossanda contro il “contarsi per contare” è di bruciante attualità. Bisognerebbe allora mettere un punto fermo. La ricostruzione della sinistra non passa attraverso la partecipazione agli scontri elettorali. Anche risultati locali a volte confortanti hanno corto respiro. Di fronte al taglio del parlamento e alla prospettiva tutt’altro che improbabile, per quanto da contrastare con tutte le forze disponibili, che si torni a votare con la stessa legge, salvo rimaneggiamenti obbligati, ha davvero poco senso ripercorrere la strada di un’aggregazione elettorale, per giunta con un incerto e improvvisato profilo. Del resto più di un’analisi dimostra che il voto di appartenenza, non solo di testimonianza, ha perso terreno rispetto a quello di opportunità, legata alla possibilità di ottenere qualche risultato concreto. Non si tratta quindi di recidere ogni confronto con le istituzioni. Si possono costruire intese con forze o individualità al loro interno per il raggiungimento di specifici obiettivi. Ma in primo luogo serve raccogliere tutte le forze disponibili per avviare un processo costituente di una nuova forza politica di sinistra. Non sommare, ma riuscire a fare interloquire  i portatori di un pensiero alternativo, siano questi pezzi di organizzazioni, esperienze di movimento, associazioni o singole intellettualità.

Nessuna miniorganizzazione può proporsi come il centro propulsore ed egemonico di un simile progetto. Per cui individuare il punto di partenza non è facile. Tuttavia la discussione apertasi su questo giornale ci può aiutare fornendo un modello di ambito comune, una sorta di crogiuolo, in cui riversare le diverse riflessioni che puntano alla trasformazione dell’attuale società rifiutandosi di concepire il capitalismo come la fine della storia, che contrappongano al suo totalitarismo un’altra idea dialettica di totalità e l’esigenza di dare vita ad un’organizzazione che, con tutte le innovazioni necessarie, costituisca una massa critica capace di costruire concreti modi alternativi di vita e di lavoro.

Un percorso indubbiamente difficile perché ci si scontra con un pervicace  attaccamento alle storie delle proprie organizzazioni nell’illusione di ognuno di fare della propria il centro di una nuova aggregazione più o meno larga. Il guaio è che questo vizio non è riscontrabile solo nei minipartiti, ma anche nei numerosi cenacoli intellettuali, spesso ricchi di idee, ma non comunicanti attivamente tra loro. Ma se non vogliamo la desertificazione bisogna evitare, come ci ammoniva Franco Fortini, di essere “materialisti con gli altri e idealisti con noi stessi”.

COMMENTO DI FELICE BESOSTRI ALL’ARTICOLO DI ALFONSO GIANNI

A proposito dell’articolo di Alfonso Gianni sul Manifesto del 7.01.2022:

1) contaminazione dei destinatari, per allargare l’area della sinistra e per spingere a reagire soggetti evocati, anche se incidentalmente, per esempio LeU, dimostrazione vivente o morente che la via dell’assemblamento elettorale è fallimentare per il futuro della sinistra.

2) LeU è punita dalla Legge elettorale, basta mettere a confronto i suoi voti al Senato e alla Camera e i seggi, con quelli della SVP, ma anche da scelte di candidatura, ha perso membri verso PD, Verdi e persino Italia Viva.

3) Il punto 2 serve a capire che la questione elettorale non è soltanto la traduzione di voti in seggi, ma quella di avere   una rappresentanza non eccessivamente distorta del corpo elettorale. Tra una legge elettorale totalmente proporzionale senza soglie di accesso e liste totalmente bloccate di una Camera di 400 o 200 membri, preferisco sistemi maggioritari quali il duale (ogni collegio  maggioritario elegge due parlamentari, un uomo e una donna anche di liste) o un sistema misto (50% maggioritario e 50% proporzionale), ma anche un sistema totalmente maggioritario fatto di collegi uninominali con diritto di tribuna in un Parlamento monocamerale di  945 membri, che dopo aver dato la fiducia al governo si divida in due Camere (2/3 e 1/£ con funzioni diverse, una sicuramente di controllo, dopo le elezioni.

4) Parole d’ordine chiare sinistra alternativa, costituzionale e ambientalista. Basta difendere la Costituzione, ma attuazione avendo come guida l’art. 3 c. 2 Cost. “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

5) con un programma minimo, non minimalista, del tipo di quello socialista abbozzato nel 1895, tre anni dopo la fondazione e definitivamente adottato dal VI Congresso di Bologna del 1900, che  tra i punti principali  prevedeva “il suffragio universale, l’eguaglianza giuridica e politica tra i sessi, l’autonomia comunale, la statalizzazione di ferrovie e miniere, il prolungamento della scuola dell’obbligo, una tassazione progressiva sui redditi e le successioni, le otto ore lavorative, la riforma dei patti colonici e la distribuzione delle terre incolte”.

Il PS chiedeva infine l’abolizione delle misure restrittive della libertà di stampa. Da aggiornare, benché la “tassazione progressiva sui redditi e le successioni” sia ancora attuale. Nel caso nostro una bozza deve precedere  la formazione del nuovo soggetto politico.

6) Nuovo inno nazionale, da approvare con referendum.

7) Uno stato d’animo di fondo, che non ho colto in alcuni interventi, la ricomposizione, per dirla con il centenario Edgar Morin, dei 3 filoni ideali storici del movimento operaio, socialista, comunista e libertario. Il dialogo Gramsci-Matteotti, proposto insieme con il compagno Franco Astengo ne è la premessa.