«Caro Fabozzi come d’accordo invio a Te il mio contributo al dibattito c’è vita a sinistra. Per otto giorni sono stato privato del Manifesto.Quindi può essere stata una MIA IMPRESSIONE, ma non ho visto contributi, provenienti da esponenti di sensibilità socialista. Non so se ciò sia dipeso da nessun interesse dell’AREA SOCIALISTA   o da altre ragioni. Per me che ho nostalgia di un partito, il primo Psiup, in cui erano contemporaneamente iscritti Nenni, Basso e Saragat  con Lombardi e De Martino e che mi sono iscritto al PSI  quando aveva uno dei più bei simboli di partito con  la falce e martello, ma soprattutto con il libro e alle spalle il sol dell’avvenire. son disposto a scommettere che pochi hanno letto la frase stampata sul libro. Sono uno che Alain Touraine ha convinto che le parole “comunista” e “socialdemocratico”non dovrebbero mai essere adoperati come insulti. Ed Edgar Morin che la sinistra non rinascerà finché non sarà capace di ricomporre i suoi  filoni storici ideali. so che parlare di filoni ideali non sembra molto marxista, neppure nella versione austro, ma se facessimo quelli che giudicassero dalle cose fatte o da quelle non fatte, cioè sui fatti, penso che passeremo il prossimo tempo in insulti e/o recriminazione, invece ci è data un’opportunità per rimediare agli errori del passato sempre che si sia capaci  di procedere con onestà e chiarezza e con spirito costruttivo. Dobbiamo avere proposte alternative ma realistiche nel senso di essere convincenti e fattibili. Per esempio accettare un sistema proporzionale con soglie di accesso anche del 5%. se abbiamo come orizzonte il socialismo, cosa sia lo capiremo in corso di rotta, da conquistare con la democrazia dovremmo essere convinti che conquisteremo la maggioranza dei cittadini elettori, quindi più del 5%.  Se, invece, l’obiettivo è di eleggere il nostro beneamato leader e qualche compagno allora anche il 3% è troppo, meglio lo 0,5%.
Felice C. Besostri

C’è vita a sinistra? C’è speranza.

Se c’è vita a sinistra, c’è anche speranza, che è l’ultima dea a morire. La speranza è incompatibile con la nostalgia per un passato mitico o quantomeno mitizzato: il passato comprende i dissidi ideali e programmatici, nonché momenti di agire comune senza  futuro, che hanno travagliato la sinistra; ed in particolare la tragedia della impossibilità di unione davanti all’aggressione fascista alla democrazia negli anni ’20 e ’30 del XX secolo. Si tratta di errori che non dobbiamo ripetere, ma nemmeno dimenticare in una specie di catartica rimozione collettiva, perché la crisi attuale della sinistra in Italia in quel passato, anche se non esclusivamente, ha le sue cause.
Ringrazio Il Manifesto per aver aperto questo spazio di discussione. Non c’è uno spazio fisico e pubblico di discussione plurale ed inclusiva, nel quale si possano mettere a confronto tutti i filoni ideali storici della sinistra socialista, comunista, e libertaria, con gli arricchimenti prodotti dal cristianesimo sociale e da movimenti come il femminismo, l’ecologismo politico e per il rispetto dei diritti umani e civili, individuali o collettivi che siano. La prima cartina di tornasole, che si apre una nuova fase, è proprio nella non discriminazione dei filoni ideali invitati a partecipare alla ricostruzione della sinistra.  La sinistra ha bisogno di un luogo dove il “che cosa si dice” sia più importante di “chi lo dice” e “dove andare insieme” più significante del “da dove si veniva divisi”.
Intendiamoci: l’odierna situazione di offensiva generalizzata contro la democrazia costituzionale e sociale, come si era configurata dopo la seconda guerra mondiale, è cosa serissima. Così come seria è l’offensiva che riguarda la garanzia dei diritti, la divisione dei poteri e le conquiste dello stato sociale. Ma aver perso il testimone – nella staffetta culturale tra le vecchie e le giovani generazioni – produce un penoso scimmiottamento di altre congerie storiche, evocando fantasmi che credevamo sepolti per sempre.
Le grandi conquiste, non benevole concessioni, del compromesso socialdemocratico, in primis il welfare state, sono l’obiettivo delle destrutturazioni imposte con il pretesto della crisi economico-finanziaria, che si è acuita a partire dal 2007, ma il cui punto di partenza è iniziato nel ventennio precedente: esso ha origine nell’erosione del potere di acquisto di stipendi e salari e della loro percentuale del PIL rispetto alle rendite e ai guadagni finanziari, con la concentrazione della ricchezza nel decile superiore delle classi sociali (quando non è l’1% denunciato dal movimento Occupy Wall Street). In Italia, poi, vi sono due fattori endogeni che hanno fatto la loro considerevole parte: 1. la profonda iniquità fiscale, in barba alla Costituzione che impone la progressività delle imposte; 2. la truffa “interna” del changeover lira-euro (taroccato a 1000 lire per 1 euro) che, raddoppiando i prezzi di beni e servizi ma non i salari (solo per i quali è valso il cambio ufficiale a 1936,27), li ha con ciò stesso dimezzati, con danno per la complessiva domanda interna, riportata a valori precedenti gli anni ’20 del novecento. Ancora, La legislazione approvata sotto l’impulso del Governo Renzi rappresenta nel merito e simbolicamente una sconfitta della sinistra e dei suoi idoli (realizzati, come già detto, secondo la declinazione socialista democratica), dal Job Act, che ha archiviato lo Statuto dei Lavoratori, alla legge sulla scuola, che trasforma la scuola pubblica in un’azienda diretta da presidi manager ovvero il “Salva Italia”, che potenzialmente compromette l’ambiente e, con il nostro mare, le potenzialità di uno sviluppo turistico. Una serie di leggi, cui hanno dato il loro voto favorevole parlamentari, per i quali la disciplina di partito ha un valore superiore alla Costituzione e all’interesse della Nazione, l’unico vincolo ammesso dall’art. 67 Cost. Infatti, i partiti non sono ancora quegli strumenti di partecipazione democratica previsti dall’art. 49 Cost., bensì di esproprio della democrazia rappresentativa. Il superamento della forma-partito precedente, invece di dare all’individuo spazi di realizzazione ulteriore, ha rivitalizzato potentati economici e la presa mediatica di messaggi semplificatori, quando non addirittura fuorvianti, circa il ruolo della politica nella direzione della società. La strumentale squalificazione della politica, parte dell’ampia strategia di attacco allo stato sociale ed alle istituzioni parlamentari che lo vigilano, ha come obiettivo principale (anche grazie ad un sistema dei media prono agli esecutivi ed ai poteri economici influenti) la insensibilità e disattenzione democratica, e come portato secondario il disprezzo per i partiti e per i loro esponenti. Solidarietà di classe e chiusure di ceto si sono nuovamente sostituite alla ricerca dell’interesse della collettività, nel quale furono protagonisti il laburismo britannico e le socialdemocrazie scandinave. La funzione trainante del lavoro, nella ricerca del benessere della società, ha lasciato il campo ad una criminalizzazione dell’epoca in cui l’economia sociale di mercato costruì un modello europeo di successo (i Trent’anni Gloriosi 1945-1973, in cui si verificò la grande espansione ed il miglioramento delle condizioni dei lavoratori senza paragoni). Si tratta del modello che è proprio quello che è minacciato dalle ricette di iniquità fiscale, conseguente austerità e di connessa riduzione della spesa pubblica: la quale spesa, dal passpartout keynesiano, è precipitata al ruolo di bestia nera delle pulsioni iper liberiste, che, mal sopportando la concorrenza, il mercato libero, regolamentato e controllato da pubblici poteri, negano la stessa possibilità per le politiche pubbliche di coniugare rigore e servizi dello stato sociale.
Forse il keynesismo è superato, ma non è affatto superata l’esigenza di offrire ad ampie fasce sociali una Weltanschauung che emancipi i ceti lavorativi dall’invidia di classe, dal corporativismo bottegaio, dal “not in my backyard”. Se la forma partito va superata, non deve tornare lo stato di natura o la legge del più forte; semmai, occorre recuperare il pregnante movente ideale con cui l’intellettualità europea salutava, nella nascita dell’opinione pubblica, il motore di una versione più giusta, cioè razionalizzata economicamente (in quanto la domanda di beni potesse provenire da una platea sempre più ampia di popolazione), della struttura sociale. Viceversa, negare alla democrazia di massa una guida culturale ed ideale significa ignorare le forti analogie con il periodo che precedette e seguì la prima Guerra Mondiale.
In assenza di uno spazio pubblico di riflessione, è la sinistra la principale vittima predestinata della regressione del dibattito pubblico. Il compagno Andrea Ermano, direttore dell’Avvenire dei Lavoratori di Zurigo, ha contribuito ad inquadrare la questione, citando l’effetto moltiplicatore che la deriva emergenziale (innescatasi in concomitanza con i grandi attentati terroristici del 2001) esercita intrecciandosi con le incredibili dinamiche finanziarie e altre crisi ancora: idriche, alimentari, energetiche, demografiche e umanitarie. Ne deriva un impatto – difficilmente sostenibile per lo Stato di diritto, senza una potente mobilitazione a sua difesa – sugli assetti costituzionali che hanno caratterizzato per duecento anni il modello istituzionale europeo.
Si può obiettare che la difesa della democrazia non è un compito della sinistra in quanto tale, ma di tutti i democratici di ogni orientamento. Quando non si è trattato di una mera difesa passiva dello status quo, però, finora è alla sinistra che si deve l’antemurale più efficace contro le spinte autoritarie. L’attuazione della Costituzione repubblicana del 1948 passa per il secondo comma dell’art. 3, per l’art. 1 per l’art. 2: il riequilibrio delle basi di partenza, rispetto all’ingiusto o squilibrato assetto delle risorse (che impone doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale), favorendo così il pieno sviluppo di ciascuno e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica (che su di essi si fonda), è tra gli obiettivi di un governo di sinistra ed il cambiamento, in questi termini, è il primo degli impegni che sono già scritti in Costituzione.
Il punto politico principale è il che fare se uno dei punti principali è la difesa della democrazia e con essa dei diritti sociali? L’Italia è diventata il paese cavia dal punto di vista della destrutturazione democratica, come il Cile lo fu per politiche economiche liberiste, in un processo generale di riduzione dello spazio pubblico e di interventi pubblici di regolazione dell’economia degli stati nazionali, non compensati dai poteri crescenti di organizzazioni internazionali o istituzioni sovranazionali, con standard democratici ridotti perché privi di una dimensione parlamentare o con poteri ridotti di quest’ultima rispetto alla tecnostruttura burocratica e alla rappresentanza governativa: l’UE rappresenta un tentativo di avere un rappresentanza dei popoli in  Parlamento sovranazionale, ma non è un caso che è prevalsa finora la cooperazione intergovernativa su quella comunitaria e lo strapotere del Consiglio Europeo, provocando ciò i maggiori danni.
Dobbiamo cogliere l’importanza dell’emergenza democratica e dell’insufficienza dei contrappesi istituzionali interni, dalla Presidenza della Repubblica alla stessa Corte Costituzionale, come la vicenda dell’annullamento del Porcellum ha dimostrato. Infatti, un Parlamento eletto con norme incostituzionali, non solo ha approvato una nuova legge elettorale che non rimuove i vizi di incostituzionalità alla luce dei principi enunciati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 1/2014 (di annullamento parziale della precedente legge n. 270/2005), ma sta addirittura perpetrando lo stravolgimento della Carta Costituzionale, grazie a norme regolamentari redatte ed interpretate come non vi fosse l’art. 138 Cost.: si impediscono infatti emendamenti ai testi, come se le norme costituzionali fossero leggi ordinarie, di cui si chiede una rapida approvazione, sostanzialmente ed incostituzionalmente facendone oggetto di questione di fiducia. Ancora, lo stesso Parlamento viziato in origine sta nel contempo impedendo di fatto la stessa integrità della Corte Costituzionale non eleggendo i membri scaduti oltre che delegittimarla, se compromette i conti pubblici, mossa dal rispetto della Costituzione. Il rafforzamento dell’esecutivo rispetto alle assemblee rappresentative è una tendenza generalizzata: la propagandata logica di decisioni rapide, che intenzionalmente confonde e mescola le funzioni costituzionali e la gerarchia delle fonti (allo scopo di coprire le responsabilità politiche e facilitare le misure impopolari, antieconomiche, se non illecite), mette in discussione le procedure proprie dei Parlamenti, che hanno la caratteristica – lo dice il loro stesso nome – di discutere prima di deliberare. Un dibattito pubblico, anche ampio e profondo, che preceda le deliberazioni è più importante dei sistemi elettorali, proprio perché consente una corretta informazione sulle ragioni delle scelte nella gestione della cosa pubblica, anche al fine di poterla influenzare con i canali dell’azione politica.
Il Coordinamento per la democrazia costituzionale (www.coordinamentodemocraziacostituzionale.net) ha deciso di promuovere ricorsi contro l’Italikum, ora che l’iter è stato completato con l’individuazione dei 100 collegi, almeno in ciascun distretto di Corte d’Appello, cioè 26 ricorsi. Questi ricorsi non possono essere iniziative puramente giudiziali di giuristi democratici: occorre evitare quello che è successo con il Porcellum, che il positivo esito in Corte Costituzionale e in Cassazione, non si sia tradotto politicamente in una nuova legge elettorale costituzionale, ma in quel mostro, che è l’Italikum, e con gli ulteriori suddetti effetti di deformazione costituzionale ancora propiziati – post mortem – dal Porcellum. Come estendere l’opposizione, accompagnando le impugnazioni con la costituzione di comitati di sostegno? Completare l’azione giudiziaria con un referendum abrogativo? Sono decisioni collettive e politiche, che non possono essere prese in solitario. Ancora una volta si ripropone il problema dell’esistenza di luogo di confronto plurale e decisione condivisa, nel quale delineare un controprogetto e non limitarsi a far fallire quello renziano. Ci vuole una nuova legge elettorale e un’azione decisa di attuazione della Costituzione come parte principale di un programma di governo di una sinistra, radicalmente ed intransigentemente riformatrice. Una sinistra che dia concretezza a riforme di struttura ed ad una doppia strategia di rafforzamento della democrazia rappresentativa e della sua estensione con istituti di democrazia diretta e di partecipazione dei cittadini.
Uno spazio di azione si deve aprire – anche a livello europeo – e questo mi consente di passare al secondo punto di questa lettera pubblica: quello della questione socialista nell’ambito dei temi da affrontare se vogliamo dar vita ad una nuova sinistra. La questione socialista non è la questione dei socialisti all’interno di un futuro schieramento: sarebbe come ridurre la questione meridionale da questione nazionale a problema degli abitanti di quelle plaghe. Ma se la questione socialista è un problema specifico della sinistra italiana, la stessa sinistra italiana nel suo complesso, superato questo snodo, è l’unica nella condizione di proporre un riavvicinamento – anche in Europa – tra le sinistre di varia matrice culturale, l’ambientalismo e il federalismo. Il bilancio complessivo europeo, includendo il PSE, è infatti uno spostamento a destra del suo panorama politico. La critica al PSE tuttavia non deve esimere dalla necessità di considerare quanto segue: non esiste una possibilità di invertire la politica europea se i partiti membri del PSE sono visti in blocco come un avversario da battere e non un interlocutore necessario, proprio perché è in gioco il futuro della democrazia in Europa. I singoli partiti del PSE sono capaci di generare sorprese del tipo la elezione di Jeremy Corbyn a leader del Labour Party. Inoltre non si dovrebbe dimenticare che sono i giovani socialisti laburisti norvegesi ad aver pagato il prezzo più alto alla reazione nazionalista e razzista europea con la strage di Utøya.
Pur con le differenze evidenti la situazione attuale presenta una caratteristica comune con la crisi democratica degli anni Venti e Trenta del XX secolo: l’attacco alla democrazia è ampio e articolato e ha come obiettivo proprio le Costituzioni democratiche approvate nel secondo dopoguerra nel nostro continente, perché troppo democratiche e con un forte ruolo dei Parlamenti rispetto ai governi. Va rilevato, infatti, come solo i Parlamenti siano, per loro genesi storica e loro funzione, le istituzioni che possono garantire una redistribuzione (attraverso tasse progressive e servizi dello stato sociale) ed un intervento regolatore che crei il mercato concorrenziale (prodotto non dato in natura). Colpire i Parlamenti è indice di cosa si voglia abbattere; e non ci si può esimere dall’osservare, in controtendenza rispetto a manichee attribuzioni di responsabilità ed assoluzioni (entrambe collettive, anche sulla vicenda greca), come i parlamenti più forti sono nel centro-nord Europa (tra i paesi a democrazia “stabilizzata”, secondo la definizione di Biscaretti di Ruffìa, Francia a parte).
Gli avversari non sono il fascismo ed il nazismo ma più subdolamente i centri di potere economico finanziario ed i governi che ne tutelano gli interessi anti erario, anti regolamentazione-concorrenza, anti stato sociale, anti pubblici poteri. La manovra a tenaglia è sia interna che esterna: interna con i progetti di revisione costituzionale per concentrare i poteri negli esecutivi, esterna con i trattati internazionali (tipo TTIP) o i poteri di controllo assegnati ad organismi come la Troika, Commissione Europea-BCE-FMI, non solo senza legittimazione politica democratica, ma neppure statutaria ed ancorata nei trattati UE.
Il socialismo democratico aveva una visione mondiale del proprio compito, come si desume dalla Carta di Francoforte fondativa dell’Internazionale Socialista; era portatore di altri valori per la società (manifesto di Bad Godesberg, corollario della scelta della SPD per la democrazia per la conquista e gestione del potere, vale a dire dell’indissolubile legame tra libertà e socialismo); produsse piani come quello Maidner e personaggi come Willy Brandt e Olof Palme; una visione di economia mista e sociale che privilegia gli interessi collettivi , chiarissima nella nostra Costituzione, in particolare negli artt. 35-47 (rapporti economici). Nel settembre del 1915 a Zimmerwald e nell’aprile 2016 a Kiental ci fu il riscatto morale del socialismo pacifista. A cent’anni di distanza dovremmo cercare di dare un segnale della stessa forza da parte della sinistra europea su impulso di quella italiana, la cui storia differisce da quella degli altri paesi europei sia ad est che ad ovest.

Felice C. Besostri