Traduzione a cura di Andrea Pisauro

Il Regno Unito si trova in mezzo a una crisi istituzionale senza precedenti. Ripercorrendo le vicende delle ultime settimane emerge con chiarezza il pericolo di una deriva antiparlamentare, ma anche la possibilità che se ne esca con un processo di democratizzazione delle istituzioni

Quello che sta avvenendo in queste settimane nel Regno Unito è grave e incredibile. Grave, perché quando un primo ministro privo di un mandato popolare o parlamentare è libero di ottenere da un monarca in carica per diritto ereditario la chiusura del parlamento che si oppone alle sue politiche, siamo di fronte a una sostanziale sospensione della democrazia rappresentativa. Incredibile, quando questo avviene nel più antico dei parlamenti del continente, che si riunisce a Westminster da oltre 7 secoli e che da oltre 400 anni custodisce, in un complesso equilibrio di convenzioni e prerogative strappate a poco a poco alla corona e ai suoi governi, la sovranità democratica dell’assetto istituzionale del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord. È chiaro che qualcosa di profondo di questo equilibrio si sia rotto, con esiti ancora largamente imprevedibili.

Tutto origina dallo psicodramma della Brexit che da oltre tre anni monopolizza l’attenzione e le attività dell’intero establishment britannico, impegnato in una guerra stellare che va avanti dall’avvelenata campagna per il referendum del 23 giugno 2016, svolta nel clima di tensione crescente che armò la mano dello squilibrato che uccise la deputata laburista Joe Cox. David Cameron, allora primo ministro, è tornato a parlare di quelle settimane in un libro di memorie che gli ha fruttato quasi un milione di sterline di diritti. Lo ha fatto per lanciare accuse molto forti contro il suo successore Boris Johnson (BoJo per amici e nemici), il quale avrebbe scelto la Brexit «non per convinzione ma perché conveniva alla sua carriera». Non è dato invece sapere quanto Cameron, che continua a definirsi un euroscettico moderato, credesse invece nella rinegoziazione concordata nel febbraio 2016 con cui provò a riformare in peggio l’Europa, limitando l’accesso al welfare dei migranti europei e aumentando i poteri di deportarli da parte dei governi.

L’aspirante imperatore

Cosa sta succedendo dunque, oltre a una guerra intestina al Partito conservatore? Ripercorriamo alcuni fatti di questi giorni. Lo scorso 28 agosto una lettera al parlamento di Boris Johnson annunciava l’avvio della procedura di chiusura della sessione parlamentare, sospendendone ogni attività fino al 14 ottobre. È un passaggio chiamato prorogation che si verifica ogni anno con un discorso letto dalla regina, che avvia formalmente la nuova sessione parlamentare e annuncia il programma del governo. L’ultimo discorso della regina è però avvenuto subito dopo le elezioni del 2017, oltre due anni fa. Da allora, per non fare decadere molti procedimenti legislativi legati alla Brexit, il parlamento non è mai stato prorogato e a giugno, con le dimissioni di Theresa May è cambiato anche il governo. Boris Johnson aveva dunque qualche argomento valido per chiudere la più lunga sessione «in quasi 400 anni». Ma la sospensione dei lavori parlamentari tra la chiusura di una sessione e l’avvio di quella successiva dura solitamente pochi giorni, e non le cinque settimane richieste dal primo ministro, che avrebbe peraltro potuto prorogare il parlamento d’estate, quando è rimasto chiuso per oltre un mese. La lunghezza e la tempistica della sospensione riflettono la volontà di impedire un libero dibattito parlamentare sulla scelta del governo di procedere a una Brexit senza accordo (No-deal Brexit) alla scadenza del 31 ottobre. Spetta al primo ministro la prerogativa di decidere la durata della sospensione, lasciando al sovrano il ruolo cerimoniale di approvare la decisione. Questa convenzione origina dalla storica necessità di limitare il potere del sovrano (nei secoli passati uso a sospendere parlamenti dediti a iniziative poco gradite) ma nel caso di un primo ministro come Boris Johnson, che non ha mai ricevuto la fiducia delle camere e promuove una politica (sulla Brexit) priva di una maggioranza parlamentare, permette al potere esecutivo di prevaricare il potere legislativo, dimostrando i profondi limiti della democrazia britannica priva di una Costituzione scritta. Vale la pena notare che la sospensione imposta da Johnson dura soltanto cinque settimane perché un disegno di legge sull’Irlanda del Nord approvato a luglio costringe il parlamento a rimanere aperto alcuni giorni a inizio settembre, e a essere riconvocato il 14 ottobre, anche in caso di proroga (vincoli introdotti con un emendamento passato per un solo voto e contro il parere del governo proprio in timore di una simile mossa da parte di Johnson). La stessa lettera del 28 agosto con cui Johnson annuncia la sospensione del parlamento viene scritta in fretta e furia dopo un’indiscrezione che ha costretto il primo ministro a mostrare le sue carte e ha dato al parlamento qualche giorno per reagire prima di essere sospeso. Vedremo se questo si rivelerà un errore decisivo, ma è importante sottolineare che se Johnson avesse potuto, avrebbe sospeso il parlamento per oltre due mesi, silenziando l’opposizione al suo No-deal Brexit, quasi fosse un aspirante imperatore in procinto di azzerare un regime democratico. Ricorda qualcuno?

L’alleanza ribelle

Non era dalla regina che ci si poteva aspettare un’opposizione, anche perché avrebbe creato un ulteriore, inedito, scontro istituzionale, con conseguenze imprevedibili per la stessa monarchia. Altre reazioni non si sono fatte attendere: quella dei cittadini britannici è stata immediata, massiccia e oltre le peggiori aspettative del primo ministro. Quasi due milioni di persone hanno firmato in poche ore una petizione che chiedeva di fermare la sospensione del Parlamento, e decine di migliaia (tra cui anche votanti del Leave) sono scese in piazza per giorni in tutte le principali città del paese per fermare il «golpe» (stop the coup era lo slogan nelle piazze). Nelle ore immediatamente successive all’annuncio della sospensione un editoriale del Financial Times dai toni poco usuali chiedeva la destituzione del primo ministro.

Alla reazione del paese fa seguito quella delle opposizioni parlamentari guidate da Jeremy Corbyn che costringono il governo a una serie di umiliazioni: il governo viene sconfitto in tutti i voti parlamentari (oltre una ventina tra camera dei comuni e dei lords). In una corsa contro il tempo tra il ritorno dalle ferie (il 4 settembre) e l’inizio della sospensione (avvenuta il 9 settembre) l’opposizione approva in sequenza una mozione d’ordine (lo standing order 24) che gli consente di prendere il controllo dell’agenda, una legge che impone al primo ministro di chiedere un’estensione in assenza di accordo con l’Unione europea sulla Brexit e una mozione che lo obbliga a pubblicare le proprie analisi e corrispondenze sul no deal. Nel caos politico di quei giorni, si dimette la leader del Partito conservatore in Scozia e Boris Johnson perde la maggioranza, col passaggio di due deputati nelle file dei liberal-democratici. Poi BoJo finisce per perdere anche le staffe, cacciando dal partito oltre 20 deputati che gli avevano votato contro, inclusi l’ex ministro dell’economia del governo May e il nipote di Winston Churchill (cose che sulla stampa d’Oltremanica non passano inosservate). La mossa produce un terremoto anche all’interno del governo: si dimettono due ministri, qui spicca Jo Johnson, fratello di Boris, primo caso di un politico che si dimette per passare meno tempo con la famiglia. Di umiliazione in umiliazione, a Boris Johnson viene negata anche la carta dello scioglimento della camera dei comuni, che per effetto di una legge del 2011 può essere deciso solo da un voto del parlamento. L’opposizione ha rifiutato la proposta perché BoJo, avendo il potere di fissare la data delle nuove elezioni, aveva già minacciato di fissarle dopo un no deal Brexit. L’opposizione – una alleanza ribelle (così il Times) contro i colpi di mano di BoJo e il suo No-Deal – divenuta oramai maggioranza, vuole dunque prima assicurarsi una nuova estensione della scadenza sulla Brexit, e solo dopo tornare al voto.

La morte nera

Ma qual è il piano sulla Brexit di Boris Johnson? In molti si chiedono se possa davvero avere un piano sul tema un uomo che decise come schierarsi dopo avere scritto due editoriali, uno a favore del leave e uno del remain, e che il suo ex capo al Daily Telegraph ricorda per la sua «codardia, che si riflette nella disponibilità a dire qualunque cosa ritenga probabile possa piacere al suo pubblico, incurante dell’inevitabilità di venire contraddetto un’ora dopo». Amber Rudd, una dei due ministri dimessisi a inizio settembre, ritiene che non ci sia nessun realistico sforzo per cercare un accordo sulla Brexit con la Ue, convinzione condivisa anche a Bruxelles, dove, nell’escalation di umiliazioni, il primo ministro del Regno Unito si è fatto prendere in giro da quello del Lussemburgo. Di sicuro c’è la sua promessa di portare il Regno Unito fuori dalla Ue il 31 Ottobre do or die (che possiamo tradurre con Brexit o morte). Dal piano di prorogation e fino alle indiscrezioni sui numerosi tentativi di trovare scappatoie legali alla legge che impone al primo ministro di chiedere un’estensione (prospettiva rispetto alla quale BoJo preferirebbe morire in un fosso) appare un governo se non disposto a violarla, attivamente intento a capire come aggirare la legge (al punto che il sindacato dei lavoratori della funzione pubblica ha dovuto chiarire che il governo non deve chiedere ai suoi dipendenti di violare la legge).

Si dice faccia tutto parte del vero piano, quello congegnato dallo special adviser Dominic Cummings, lo stratega della campagna per il leave raccontato nel film Brexit: The Uncivil War, un po’ il Darth Vader della situazione, che prevede una elezione anticipata in cui BoJo si presenti al Paese come il campione della Brexit e del popolo contro il parlamento di mestieranti antidemocratici che la vogliono bloccare. Incombono gli scenari ritenuti possibili dallo stesso governo in caso di No Deal Brexit, che un voto del parlamento ha costretto a rendere pubblici. Il rapporto sulla cosiddetta «operazione Yellowhammer» prefigura caos duraturo in porti e aeroporti, carenza di cibo, medicine e carburante, disordini nelle strade e controlli potenzialmente esplosivi ai confini irlandesi. Sono solo le conseguenze immediate: nel lungo periodo, è altamente probabile che una Brexit non concordata rischi di causare massicci spostamenti di industrie e servizi (con conseguenze sulla disoccupazione). Sembra poi inevitabile che, con rapporti di forza ancora più svantaggiati, il Regno Unito dovrà comunque riavviare una negoziazione con l’Ue, visto che oltre al commercio diretto, nel mercato unico transita poco meno del 50% del commercio britannico con l’estero. Non ci sono dubbi: un no deal Brexit è la morte nera.

Oltre 3 milioni di cittadini Ue non britannici che vivono lavorano o studiano in Gran Bretagna non possono affidarsi ai tentativi del Parlamento di bloccare un governo determinato a uscire a tutti i costi dalla Ue. È  fondamentale che chiunque risieda nel Regno Unito faccia ben prima del 31 ottobre la domanda per ottenere il settled status che permette di rimanere legalmente nel Regno Unito anche in caso di no deal Brexit. Per qualunque dubbio sulla domanda o sui propri diritti post-Brexit, importante consultare associazioni di advocacy quali the3million o mandare una mail a un patronato italiano in Gran Bretagna come quello dell’Inca Cgil. Per chi sta considerando di trasferirsi è importante seguire i canali informativi e tenere presente che l’incertezza rispetto ai diritti di chi arriva dopo il 31 ottobre è molto alta, come è alto è lo stress e la tensione di chi vive qui.

In attesa di capire cosa accadrà e mentre le forze politiche valutano il da farsi nel congelamento imposto dalla chiusura del parlamento, un nuovo colpo di scena ha messo a dura prova la tenuta mentale per i «cittadini britannici, abituati a un sistema politico ed elettorale ben noto per la capacità di garantire la stabilità» – per dirla con le ultime parole famose di chi, nel frattempo, sembra aver imparato ad apprezzare le virtù del sistema politico italiano, e persino di leggi elettorali di tipo proporzionale. Il 29 agosto, all’indomani dell’annuncio del primo ministro, un gruppo di 75 deputati ha fatto ricorso alla Corte d’Appello di Edinburgo per impugnare il decreto di sospensione del parlamento. Nella decisione resa pubblica l’11 settembre il caos raggiungeva un livello ulteriore: la corte scozzese mostrava di condividere l’analisi qui riportata, ribaltando il giudizio di pochi giorni prima dell’analoga corte inglese, e accusando il primo ministro di avere fuorviato la regina motivando la proroga in modo disonesto. Se è vero che, nel particolare sistema britannico, la differenza di giudizio tra la corte di Londra e quella di Edinburgo può discendere da una legislazione non identica tra Scozia e Inghilterra, l’enorme questione politica riguarda l’assenza di una Costituzione scritta, che lascia nell’ambito dell’interpretazione l’uso di prerogative governative sostanzialmente prive di check and balance.

A questo punto può essere utile ricordare (come fanno in un approfondimento gli avvocati Argondizzo, Besostri e Buonomo) che la proroga del Parlamento era in vigore anche nell’Italia post-unitaria, e che il re e il governo non si facevano scrupoli a usarla per portare in guerra il Paese: fu una battaglia politica dei socialisti guidati da Matteotti a conferire al parlamento il potere di autoconvocarsi. Questo potere il parlamento britannico non lo ha, e la sentenza della corte suprema che sta esaminando congiuntamente i ricorsi inglesi e scozzesi farà in ogni caso scuola, sia che scelga di annullare il decreto di sospensione, di fatto creando un precedente costituzionale importantissimo che impedirà simili operazioni in futuro, compreso quello prossimo visto che il governo non ha escluso di prorogare di nuovo il parlamento, sia che dichiari l’impossibilità di esprimersi sul caso, certificando la natura politica del vulnus costituzionale rivelato dalla mossa di Johnson. Qualunque sia l’esito di questa battaglia legale tra la «madre dei Parlamenti», Westminster, e il «signore delle bugie», Boris Johson (come li ha descritti l’avvocato che ha vinto il ricorso alla corte di Edinburgo), rimangono aperte due partite politiche fondamentali, da cui dipende sostanzialmente il futuro della Brexit e del Regno Unito.

La prima sarà quella tra governo e parlamento per forzare o bloccare un no deal Brexit il 31 Ottobre, il giorno di Halloween. Cruciale sarà il ruolo del leader della Camera dei Comuni John Bercow che ha definito «un oltraggio costituzionale» la proroga e ha promesso pubblicamente di fare di tutto per impedire al governo di violare la legge che lo vincola a una richiesta di estensione. Bercow, che ha iniziato la sua carriera nella destra del Partito Conservatore, ha raccolto molte simpatie a sinistra. Per la sua duttilità e la propensione a lavorare al servizio dell’alleanza ribelle lo vediamo bene nel ruolo di Han Solo. Avendo già annunciato le sue dimissioni entro il 31 ottobre potrebbe essere un potenziale candidato come primo ministro traghettatore per firmare quella richiesta di estensione che BoJo si rifiuta di chiedere al Consiglio europeo dei prossimi 17 e18 ottobre, e riportare il paese al voto subito dopo. Sulla carta, tale ruolo spetterebbe a Corbyn, come leader dell’opposizione, ma il veto dei liberaldemocratici potrebbe obbligare a scegliere altre strade. In fondo anche a Corbyn potrebbe convenire di lasciare ad altri un ruolo di garante costituzionale in vista della seconda, e più importante, partita, quella per le inevitabili elezioni anticipate.

Che la forza sia con noi…

Queste si terranno inevitabilmente dopo il 31 ottobre (Brexit o non Brexit), ma quasi certamente prima del 31 dicembre (stante il fatto che il governo non ha più una maggioranza politica in parlamento): vista la situazione, è inevitabile che vedranno la Brexit come tema centrale. Il sistema elettorale inglese, un maggioritario a turno unico, è del tutto imprevedibile in un sistema politico balcanizzato dalla Brexit, dove la maggioranza dei collegi vedono 4 candidati nelle condizioni di andare in doppia cifra: conservatori, laburisti, liberaldemocratici e il Brexit Party di Farage, pronto a denunciare il tradimento dei conservatori al minimo accenno di ammorbidimento sulla Brexit. Proprio per questo motivo, la strategia dei conservatori sarà quasi certamente di estrema intransigenza, ma la prospettiva di una nuova estensione rischia di minarne la credibilità, a vantaggio di Farage. Sul versante opposto, i liberaldemocratici hanno annunciato la nuova policy di revocare l’articolo 50, senza aspettare un nuovo referendum. Prospettiva singolare per un partito che aveva votato a favore del referendum del 2016, ma che potrebbe comunque avere presa in un elettorato pro-Remain deluso dalla timidezza del Labour Party. La nuova leader Jo Swinson aspira a diventare la principessa Leyla, ma soffre la concorrenza della più credibile Premier scozzese Nicola Sturgeon (che si gioca una chance importante di riaprire la partita dell’indipendenza scozzese), e molti elettori progressisti non riusciranno a dimenticare la sua proposta di erigere una statua per la Thatcher, e la sua partecipazione al governo di coalizione con i Tories tra 2012 e 2015.

Chi scrive non fa mistero di sostenere le ragioni del Labour party di Jeremy Corbyn, finalmente cristallino nella sua offerta al paese di un percorso democratico per rimanere nell’Ue tramite un nuovo referendum che contempli una opzione Leave credibile. Questa opzione comprenderebbe una nuova unione doganale con l’Unione europea, la garanzia del mantenimento dei diritti dei lavoratori e delle protezioni ambientali e una relazione stretta col mercato unico. L’offerta è sugellata dal solenne impegno a rispettare la decisione del popolo in questo nuovo referendum. Si tratta per certi aspetti di un’offerta fin troppo generosa rispetto alla prospettiva della Brexit, inizialmente venduta come strumento per ripristinare la sovranità del Parlamento e riprendere il controllo del processo legislativo e finita per essere usata per giustificare la sospensione di quello stesso Parlamento per bloccarne la capacità di legiferare. E tuttavia in un Paese tuttora dilaniato e spaccato sostanzialmente in due, ridare la parola al popolo sulla Brexit è una necessità democratica imprescindibile per dare legittimità a qualunque decisione finale. E un Corbyn che aspira al ruolo di Obi Wan Kenobi è l’unico che si sia impegnato a farlo.

Tuttavia il piano di Corbyn ha due limiti: non affronta la crisi delle istituzioni democratiche del paese, rivelata anche ma non solo dalla vicenda della prorogation, e non affronta il fatto che solo coinvolgendo chi ha votato Leave può arrivare una proposta di Brexit che venga considerata legittima da una maggioranza di elettori. ll piano di soft Brexit proposto dal Labour, credibile ma imposto dall’alto, potrebbe essere disconosciuto da una grande quota di elettorato. Per questo DiEM25 suggerisce al Labour un percorso più impegnativo, capace di affrontare sia la questione economica, alla base del voto per la Brexit di larga parte dell’Inghilterra del Nord e delle Midlands, sia quella democratica, con la richiesta di molti cittadini di riprendersi il controllo (take back control) da un establishment politico giudicato incapace di affrontare i problemi. Un governo progressista, guidato dal Labour di Jeremy Corbyn, potrebbe offrire al Regno una via di uscita democratica capace di tenerlo unito, se riuscisse ad affrontare insieme la questione economica e quella democratica. Occorre da una parte un’agenda di misure economiche per interrompere l’austerità e ridurre radicalmente le diseguaglianze tra nord e sud della Gran Bretagna; dall’altra, un processo di democratizzazione della Brexit, che permetta ai cittadini di riunirsi in assemblee deliberative da organizzare in tutto il paese. Sarebbero utili sia per preparare il terreno per il nuovo referendum da svolgere in un clima diverso, sia per rimettere a nuovo l’antica democrazia britannica. Giustizia sociale e democrazia deliberativa, gli antidoti alla Brexit che possono ispirare anche un processo di rinnovamento della malandata Unione europea.

*Andrea Pisauro, in Gran Bretagna da dieci anni è ricercatore di neuroscienze all’Università di Oxford, militante di Labour Party e nel coordinamento di Diem25 UK.

Fonte: Jacobin Italia

ABSTRACT*: A metahistorical comparison between the living British system and the Italian Kingdom Parliamentary system, in the first post-war period, reinforces the thesis that the House of Commons can legitimately still be master of a part of their own agenda and of the totality of their calendar even in the period of prorogation of the session.

In the two-year period 1920-1922, the Parliament of the Kingdom of Italy conquered, thanks to a socialist initiative, the power to decide on its recalling, and the organization of legislative activity through permanent commissions. It was a significant achievement: in the session of the Council of the regulation of July 31, 1920, the socialist MP Modigliani even spoke of a coup d’état, in the event that the right to prorogue or close the session was exercised immediately after Parliament had recalled itself. Even then closing the session had the effect not only of suspending, but of ending all pending matters, cancelling all work not completed; stopping all the offices including the Presidency. If a member of the opposition had succeeded in passing a proposal contrary to the Government views, or a project dissatisfied a part of the majority, the Cabinet should only close the session and the Ministry was removed from all embarrassment. For this reason, the Parliamentary power to recall itself was the frontier between the democratic evolution of the form of government and the Fascist reaction.

The Northern Ireland Executive Formation Act 2019, subsection 3 and 4 effectively grants the British Parliament the power to recall itself under the Meeting of Parliament Act 1797. If it is true that the self-recalling is exercisable lawfully within the session and not during a prorogation, it is clearly evident that the government cannot lawfully prorogue Parliament when it is self-recalled. The major thesis that Parliament – the seat of democratic sovereignty – should prevail over Government in constitutional conflicts, with the Queen neutral, remains unprejudiced.

Per la traduzione inglese dell’abstract si ringrazia il dottor Andrea Pisauro.