«Signora Presidente, onorevoli deputati e deputate commissari, ringrazio per l’opportunità datami di intervenire sul testo della legge elettorale.

Le audizioni di ieri, in particolare quella della prof. Lara Trucco, mi consentono di concentrarmi su questioni di fondo ad esclusione di quella sulla necessità, quale che sia il sistema elettorale prescelto, di una legge organica sui Partirti politici in attuazione dell’art. 49 Cost.: in mancanza di una tale legge non ci sarà una procedura trasparente di selezione delle candidature. Una selezione trasparente è, a mio avviso, più importate dell’alternativa tra liste bloccate e preferenze, se avviene, con largo anticipo sulla data dei comizi elettorali, con procedure congressuali o primariali regolate da norme di legge.

Sulla legge elettorale sono stato ascoltato dalle competenti Commissioni della Camera, il 14 gennaio 2014, e del Senato, il 20 novembre 2014 e rinvio ai testi rassegnati in quelle occasioni, che mantengono la loro validità a prescindere dalle modifiche a prescindere dalle modifiche introdotte dal Senato. La legge che ritorna alla Camera dei Deputati è stata modificata in punti non secondari, come l’attribuzione del premio di maggioranza ad una lista e non più ad una coalizione, l’eliminazione di soglie elevate interne alla coalizione ( di fatto attributive del premio alla lista egemone della coalizione) con la traslazione di voti (appropriazione indebita e non furto) di sospetta costituzionalità, l’introduzione di preferenze con effetti di fatto limitati vista l’esclusione dei capilista, gli unici sicuramente  eleggibili salvo che per la lista beneficiaria del premio di maggioranza ed eventualmente della seconda ammessa al ballottaggio.

L’elevazione della soglia per l’attribuzione del premio di maggioranza al 40% non ha, nella mia opinione, un particolare significato, semplicemente perché aumenta la probabilità che il premio sia attribuito con il ballottaggio, eventualità che rappresenta la maggiore criticità della legge in relazione ai principi enunciati nella “storica” sentenza della Corte Costituzionale n. 1/2014. Si ha l’impressione che, piuttosto che adeguarsi a quella pronuncia, il legislatore cerchi di eluderla e soprattutto, viste le sostituzioni di giudici scaduti o di imminente scadenza, di intervenire sulla composizione della Corte Costituzionale nella speranza di un giudice delle leggi più comprensivo delle esigenze dell’esecutivo.

Di contro assume un particolare significato la reintroduzione di un programma della lista e l’indicazione di un capo politico della stessa mediante quanto dispone l’articolo 14-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 361 del 1957 come sostituito dal seguente:

«ART. 14-bis. — 1. Contestualmente al deposito del contrassegno di cui all’articolo 14, i partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica. Restano ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica previste dall’articolo 92, secondo comma, della Costituzione.
2. Gli adempimenti di cui al comma 1 sono effettuati dai soggetti di cui all’articolo 15, primo comma».

Nella legge n.270/2005 la norma ha rappresentato il tentativo meglio riuscito, ancorché fosse previsto anche per la singola lista, di dare una dignità politica alle coalizioni e di contrastare, per tale via, l’obiezione più forte ad un sistema elettorale proporzionale: i partiti si presentavano singolarmente agli elettori per raccogliere il massimo dei consensi sui loro programmi, ma mantenendosi le mani libere dopo la proclamazione degli eletti per coalizzarsi non importa con chi e per la realizzazione di un nuovo programma comune, che poteva o non poteva avere  punti di contatto con le proposte programmatiche presentate agli elettori. Era una norma che si adattava alle coalizioni, che, in quanto destinatarie del premio di maggioranza, indicavano preventivamente il perimetro delle alleanze, il programma e il capo politico una formulazione ipocrita per indicare il candidato a presiedere il Consiglio dei Ministri: formulazione ipocrita altrimenti non ci sarebbe stato bisogno di precisare, nell’ultimo periodo del comma 1 del novellato art. 14.bis del D.P.R. 361/1957 che “Restano ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica previste dall’articolo 92, secondo comma, della Costituzione”.  Del tutto contraddittoriamente o equivocamente, una volta escluse le coalizioni di liste, viene mantenuta l’espressione al plurale “i partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare”. In presenza di coalizioni l’indicazione del capo politico rappresentava una sorta di anticipazione delle indicazioni che le forze politiche presenti in Parlamento avrebbero dato al capo dello Stato nelle consultazioni che precedono il conferimento dell’incarico di formare un governo, che disponga della maggioranza per ottenere la fiducia. Con una sola lista destinataria del premio di maggioranza le consultazioni e le prerogative del Capo dello Stato sono ridotte ad una cerimonia degradante nella farsa.

Dopo l’invenzione di un sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza -un evidente ossimoro-  abbiamo una forma intermedia di designazione del primo ministro, sconosciuta ai paesi dove il Premierato forte è consolidato da anni, per esempio il   Prime Minister britannico, d frutto di prassi consolidate del costume politico, ma il Premier in pectore  è un candidato come gli altri in un collegio uninominale e l’elezione diretta del Primo Ministro, come è stato sperimentato negativamente in Israele per un numero limitato di consultazioni.

Sarebbe opportuno che si riflettesse sul fatto che una forma di governo di premierato forte, non prevista dalla nostra Costituzione, nasca indebolendo di fatto il ruolo del Capo dello Stato in una delle sue più importanti funzioni, la nomina del presidente del Consiglio, e, come dirò in seguito, dell’autorità e del prestigio della Corte costituzionale: cioè dei due massimi organi di garanzia. La forma di governo viene modificata mediante l’approvazione di una legge ordinaria, adottata da un Parlamento eletto con una legge dichiarata in punti fondamentali contraria alla Costituzione, anche se senza effetti pratici atteso l’art. 66 Cost., che colpevolmente non si è voluto modificare nel parallelo processo di revisione costituzionale.

Nella nuova legge elettorale sono ignorate le indicazioni di principio date dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 1/2014, che pure lascia la più ampia libertà al legislatore, che non è formalmente vincolato ad un determinato sistema elettorale.

Quindi non è vincolato al principio “che ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi (sentenza n. 43 del 1961) ed assume sfumature diverse in funzione del sistema elettorale prescelto. In ordinamenti costituzionali omogenei a quello italiano, nei quali pure è contemplato detto principio e non è costituzionalizzata la formula elettorale, il giudice costituzionale ha espressamente riconosciuto, da tempo, che, qualora il legislatore adotti il sistema proporzionale, anche solo in modo parziale, esso genera nell’elettore la legittima aspettativa che non si determini uno squilibrio sugli effetti del voto, e cioè una diseguale valutazione del “peso” del voto “in uscita”, ai fini dell’attribuzione dei seggi, che non sia necessaria ad evitare un pregiudizio per la funzionalità dell’organo parlamentare (BVerfGE), sentenza 3/11 del 25 luglio 2012; ma v. già la sentenza n. 197 del 22 maggio 1979” e la sentenza n. 1 del 5 aprile 1952)”.

Se il legislatore nella sua libertà non vuol essere condizionato dalla sua stessa scelta ne compia una diversa, opti cioè per un sistema elettorale maggioritario, anche il più estremo, quello vigente in Gran Bretagna o negli Stati Uniti, per il quale first past the post, il primo arrivato con la maggioranza relativa  conquista il seggio, quale che sia la sua percentuale sui voti validi o la percentuale dei votanti rispetto agli aventi diritto. Una logica brutale ma coerente, per avere la maggioranza devi conquistare la maggioranza assoluta dei seggi, attribuiti in collegi uninominali, uno per uno. Ovvero il legislatore, tenendo conto dell’articolazione politica risultante dalle percentuali del voto del maggio 2008, potrebbe optare per un maggioritario  con ballottaggio eventuale, nel caso che il candidato al primo turno non ottenga la maggioranza assoluta dei voti validi espressi, pari almeno ad un quarto degli elettori iscritti: un significativo particolare questo del maggioritario francese, che si tende a dimenticare e a ragion veduta quando si parla di ballottaggio nel nostro paese: ballottaggio sì, ma all’italiana!

L’elevazione della soglia per l’attribuzione del premio di maggioranza solo apparentemente si adegua alle sentenze della Corte Costituzionale nn. 15 e 16 del 2008, 13 del 2012 ed infine 1 del 2014, perché non ha come conseguenza, che in caso di mancato raggiungimento, si distribuiscano i seggi in modo proporzionale tenendo conto di un’eventuale soglia di accesso, che scattasse in caso di mancata  attribuzione del premio di maggioranza. La coesistenza di premio di maggioranza e soglia di accesso è a mio avviso distorsiva ed illogica. Nel caso di attribuzione di un premio di maggioranza, tra l’altro superiore (340) alla maggioranza assoluta dei seggi(316), per l’obiettivo della governabilità, l’unico che lo giustifichi, è indifferente che l’opposizione sia fortemente articolata. Il premio di maggioranza consistente in un numero fisso di seggi è a rischio di incostituzionalità per violazione dell’art. 48 Cost. in quanto è tanto più elevato quanto minore è il consenso elettorale. Chi abbia il 40% dei seggi ottiene un premio del 14% dei seggi in più, mentre una lista con il 45% si deve accontentare di un 9%.  In pura teoria sarebbe più logico un premio in seggi commisurato al consenso elettorale o in misura fissa di seggi, tale da consentire di conquistare la maggioranza assoluta. Un premio di maggioranza superiore alla metà più 1 dei seggi poteva avere un senso se attribuito a coalizioni per mettere al riparo il partito egemone dagli umori degli alleati, ma in caso di lista unica con un leader chiaramente individuato non è necessario dilatarlo eccessivamente, come è ormai abitudine nelle leggi elettorali regionali dove si sta attestando sul 60% dei seggi e più se si conta anche il seggio del Presidente della Regione.

In realtà l’elevazione della soglia minima dal 37 al 40% potrebbe essere inteso come un espediente per sottrarsi con il ballottaggio eventuale proprio al requisito di una soglia minima per l’attribuzione del premio di maggioranza. Al ballottaggio sono ammesse le due liste più votate a prescindere dalla loro percentuale di voto su quelli validamente espressi e sugli aventi diritto. Non per caso nel sistema francese gioca un ruolo anche quest’ultimo dato: il ballottaggio eventuale ammette tutte le liste che abbiano raggiunto il 12,50% degli aventi diritto, cosicché sono possibili triangolari, nel 2012 nell’8% dei casi, e più eccezionalmente delle quadrangolari.

Nella nuova legge elettorale –e ciò costituisce il suo maggiore ed ineliminabile difetto- gli elettori, sia individualmente come cittadini, che come percentuale di votanti rispetto agli aventi diritto al voto, sono i grandi assenti. La governabilità è un obiettivo costituzionalmente legittimo, la sentenza n. 1/2014 della nostra Corte Costituzionale è chiara sul punto, ma dobbiamo consentire che in una democrazia parlamentare rappresentativa siano i cittadini a scegliere da chi farsi governare? E anche se vogliono farsi governare da un solo patito o da una coalizione?

Una percentuale del 40% dei voti validi ha un peso ed un significato molto diversi in tema di rappresentatività dei cittadini se partecipano al voto il 66% degli aventi diritto o meno del 50%. Nelle ultime elezioni regionali in Emilia Romagna la percentuale di partecipazione al voto è stata inferiore al 40%. Le liste ammesse al ballottaggio devono rappresentare al primo turno ciascuna di esse una percentuale minima del voto valido o sommate degli aventi diritto per dare un significato al ballottaggio, che ben potrebbe avere una percentuale di votanti sensibilmente inferiore a quella del primo turno.

Se ad un ballottaggio partecipasse meno del 50% sarebbe chiaro il significato di rifiuto della complessiva proposta politica e di candidati, capilista compresi, delle liste in competizione e in particolare delle due ammesse al ballottaggio o no? Unico rimedio in assenza di requisiti minimi di partecipazione -non inferiori al 50% degli aventi diritto- sarebbe la facoltà di modificare l’offerta politica tra il primo e il secondo turno in analogia a quanto previsto dalla legge per elezione dei sindaci.

Così come è ora il ballottaggio tra liste, senza requisiti di effettiva rappresentatività e di radicamento politico e sociale è soltanto un modo surrettizio ed implicito di scegliere il Capo del Governo, capo di una maggioranza parlamentare del 55% in grado di eleggere gli stessi organi di garanzia. Una scelta ordinamentale che richiederebbe di essere esplicita e di cui, invece non vi è traccia nella parallela revisione costituzionale, che tra l’altro procede con norme dei regolamenti parlamentari di cui dubito che siano in consonanza con l’art. 138 Cost, come da nota che consegno alla Commissione.

on. avv. Felice C. Besostri

Regolamenti parlamentari e art. 138 Costituzione

La revisione costituzionale, attualmente in corso di esame al Senato, non può essere considerata un assioma in ragione delle parti sulle quali si è già verificato il voto delle due Camere nelle due precedenti letture.

Le ragioni dell’aggravamento – previsto dall’articolo 138 primo comma Cost. – sono assai più profonde della mera inserzione, in coda ad una procedura ordinaria (priva di alcuna maggioranza qualificata necessaria), della mera ripetizione di un voto di approvazione in blocco (con la maggioranza assoluta) di un testo già lavorato definitivamente con l’ordinaria navette, si sarebbe trattato di ben misera cosa. Eppure, così è stato interpretato e praticato in questi decenni di Repubblica.

Le previsioni dell’articolo 138 si sono inverate nelle prassi parlamentari e nei regolamenti, ma ciò non significa che esse non possano essere “riattivate” appieno – in sede di ammissibilità degli emendamenti conseguenti all’ultima lettura della Camera – per la messa ai voti delle proposte aggiuntive, che si rendono necessarie per rimettere il Senato nelle condizioni di potere essere padrone di emendare – a sua volta – tutto il testo rinviatogli.

L’attuale combinato disposto tra art. 121, c.3 ed art. 104 Reg. Sen. esclude espressamente che il Senato possa discutere, emendare e deliberare su ciò che non siano “modificazioni apportate dalla Camera”; si tratta di una norma che ha irrigidito dal 1971 una disciplina che (in vigenza della medesima Costituzione) era assai più flessibile .

Al contrario, secondo le norme del Regolamento del Senato vigente appena prima del 1971 (combinato disposto tra art. 91,c3 ed art. 54,c2; corrispondente a quello del coevo Regolamento della Camera tra art. 107,c3 ed art. 67,c3), il Senato avrebbe “di norma” deliberato soltanto sulle modifiche approvate dalla Camera. Nella stessa direzione andavano le parole di Ambrosini, relatore della Giunta del Regolamento della Camera sulle proposte che introdussero anche l’articolo 67,cc. 3 e 4 [allora numerati come 52 ,cc. 3 e 4]: “La preclusione in questione non ha carattere assoluto […] Non è chi non veda come «… in correlazione», importi una notevole amplificazione della facoltà di proporre emendamenti e renda quindi possibile superare le obiezioni avanzate contro la preclusione che il primo comma del proposto articolo dispone «di norma»”. Secondo le proposte della Giunta del Regolamento della Camera che introdussero una precedente versione del Capo XI-bis (C. Doc. I n. 10, del 25 giugno 1952, discusso ed approvato con modifiche nelle sedute della Camera dal 20 giugno al 2 luglio 1952), la Giunta del Regolamento della Camera, prevedeva espressamente, con l’articolo 107-quinquies, che, nel caso di ritrasmissione dal Senato con modificazioni, l’esame dovesse limitarsi agli articoli emendati, con ciò sembrando, paradossalmente, fosse applicata una restrizione ben maggiore di quella coeva, ed assai tenue, riservata alla legislazione ordinaria. Ma questa impressione va calata e commisurata con la maniera in cui la procedura del 138 era all’epoca interpretata e regolamentata: infatti, era previsto che la duplice deliberazione dovesse svolgersi consecutivamente nella medesima Camera, che il disegno di legge dovesse essere trasmesso al Senato dopo la seconda deliberazione, e che – cosa rilevantissima ai fini qui perseguiti – in seconda deliberazione fossero “ammissibili tutti indistintamente gli emendamenti e gli articoli aggiuntivi”; si tratta di una diversità di approccio, ricavabile direttamente dagli atti dell’Assemblea Costituente, prima sezione della II sottocommissione della Commissione dei 75 (pagina 135), dove onorevoli Perassi e Nobile proposero il 15 gennaio 1947 questa formula: «La revisione della Costituzione deve essere decisa con una deliberazione a maggioranza assoluta dei membri di ciascuna delle Camere. Approvata la modificazione proposta, essa, a distanza di x mesi, viene di nuovo

Nell’unico caso di revisione costituzionale che ha avuto una ricaduta epocale e diretta sulla forma di governo della nostra Repubblica, quella dell’articolo 68 della Costituzione, la trattazione parlamentare della primavera del 1993 conferma che il Presidente del Senato si valse del suo potere di ammissibilità per consentire un allargamento della navetta.

Il Senato avrebbe dovuto limitarsi, a termini di Regolamento, a prendere atto della soppressione del terzo comma, fatta dal Senato e confermata dalla Camera. La prassi del Senato era ancora più esplicita dello stesso articolo 104 : eppure, in questa versione, il testo della Revisione costituzionale rischiava l’impasse ed il Senato non l’avrebbe mai approvato. Ecco quindi che la Commissione referente propose – ed il presidente Spadolini ammise in Aula – due emendamenti che introducevano due nuovi commi (uno per le autorizzazioni delle intercettazioni e l’altro per l’informativa alla Camera di appartenenza sui processi in corso). Anche visivamente, il testo proposto dalla Commissione referente il 15 giugno 1993 (Atto Senato n. 499-C/R) conteneva tre colonne: i due commi aggiuntivi erano collocato uno in corrispondenza del comma soppresso, l’altro addirittura senza alcuna corrispondenza nei commi delle precedenti letture.

Il testo passò anche alla Camera, dove l’Assemblea, il 7 luglio 1993, non solo non ebbe da eccepire sulla procedura seguita – che innovava profondamente la prassi sulla navette affermatasi fino ad allora – ma, a differenza di quanto fatto il 13 maggio, il presidente Napolitano addirittura ammise emendamenti: l’Assemblea ne accolse uno ed il comma sull’informativa fu soppresso (l’Assemblea del Senato concluse questa anomala navette il 22 luglio, aderendo alla soppressione).
Le esigenze della meditazione e della mediazione – che trovavano riconoscimento nel “di norma” presente nei regolamenti anteriormente al 1971 – riaffiorarono quindi prepotentemente, per consentire di chiudere una revisione costituzionale che fu tra le ultime ad ottenere poi, nella “doppia conforme”, i due terzi che evitarono un referendum confermativo.

Emendamenti volti ad aggiungere nuove porzioni di testo possono dunque essere ammessi – ad insindacabile valutazione delle Presidenze delle Camere – laddove le parti immodificate dall’altro ramo rientrino in una visione sistemica diversa, rispetto all’equilibrio che il testo aveva nella precedente lettura.

Non solo la soppressione (e perfino lo stralcio) disposto dalla Camera su un testo del Senato andava posta ai voti (v. ddl n. 114-B della VI legislatura), ma – se la Commissione referente avesse deciso di non convenire sulla soppressione disposta dalla Camera – l’Assemblea del Senato avrebbe potuto soltanto discutere sul ripristino del testo della precedente lettura del Senato (v. Aula Senato del 13 dicembre 1973, sul ddl n. 1353-B).

portata alla discussione delle Camere per una seconda approvazione a maggioranza assoluta». Seduta pomeridiana del 27 novembre 1951 della Camera.
Non solo la soppressione (e perfino lo stralcio) disposto dalla Camera su un testo del Senato andava posta ai voti (v. ddl n. 114-B della VI legislatura), ma – se la Commissione referente avesse deciso di non convenire sulla soppressione disposta dalla Camera – l’Assemblea del Senato avrebbe potuto soltanto discutere sul ripristino del testo della precedente lettura del Senato (v. Aula Senato del 13 dicembre 1973, sul ddl n. 1353-B).

 

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