Entro l’autunno del 2016, i cittadini italiani saranno chiamati alle urne per votare al referendum “confermativo” sulla revisione della Costituzione messa a punto dal Governo. Potranno cioè approvare (con il “Sì”) o respingere (con il “no”) gli effetti di un disegno di legge costituzionale (Ddl) che non modifica soltanto la natura e l’operato del Senato della Repubblica, ma cambia il volto a 60 articoli della Carta (che complessivamente ne conta 139).
Il disegno di legge -che a metà marzo si trova alla Camera dei Deputati per la seconda e finale lettura e approvazione- è di iniziativa governativa. Non è un’eccezione -come vuole invece il pretesto che sta alla base della proposta, e cioè che l’esecutivo sia in qualche modo ingessato dal Parlamento- ma è la regola: dalle statistiche parlamentari emerge infatti che l’83% delle leggi approvate nella 17esima legislatura (Monti, Letta, Renzi) sono “nate” dall’esecutivo. Nella 16esima, 2008-2013, erano a quota 76%. L’interferenza parlamentare è un falso mito, così come la circostanza che una “riforma” sia attesa da “70 anni”. In realtà, sono state già 16 le leggi costituzionali intervenute sulla Costituzione tra il 1963 e il 2012 (senza considerare quelle relative a statuti regionali, o quelle su introduzione o deroghe di norme costituzionali).

Secondo Alessandro Pace -professore emerito di Diritto costituzionale dell’Università “La Sapienza” di Roma e presidente del “Comitato per il NO”(coordinamentodemocraziacostituzionale.net) – il Ddl è “problematico” a partire dal titolo: “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione”. È una revisione, ampia, globale e che in quanto tale, secondo Pace, “non è prevista dall’articolo 138 della Carta, che invece regola il processo di modifica attraverso manutenzioni, puntuali”. Sul punto, l’avvocato Felice Besostri, promotore dei quesiti che hanno portato alla dichiarazione di incostituzionalità della legge elettorale poi chiamata “Porcellum”, suggerisce di guardare al caso di due Paesi europei, Spagna e Svezia. In quei contesti, quando interviene una revisione costituzionale, è previsto che tra la prima deliberazione e quella definitiva si tengano nuove elezioni politiche. Una forma che per Besostri è più garantista di un referendum onnicomprensivo, esposto a strumentalizzazioni personalistiche.
“Nel titolo, inoltre, manca l’elemento più importante -spiega Pace- e cioè il mutamento profondo della forma di governo italiana, visto che la cosiddetta ‘riforma’ costituzionale tende ad accentrare nel presidente del Consiglio tutti i poteri”. In che modo? “Non esistono più contro poteri esterni -afferma Pace- dato che il nuovo Senato è totalmente irrilevante. Inoltre, non sono stati previsti contro poteri interni, come il rafforzamento delle commissioni d’inchiesta o le inchieste di minoranza. Inoltre, il testo rivisto prevede che i diritti delle minoranze parlamentari e lo statuto delle opposizioni vengano disciplinati da un regolamento successivo”.

La mutazione del Senato è sancita dal primo articolo del Ddl costituzionale, che interviene sulle “Funzioni delle Camere” (l’articolo 55 della Carta). Il Senato (oggi composto da 315 membri più i senatori a vita) non scompare ma cambia natura. Non rappresenta più la Nazione -come da Costituzione vigente- ma più genericamente le “istituzioni territoriali”. Gli vengono sottratti il rapporto di fiducia con l’esecutivo, il potere di controllo dell’operato del Governo, la funzione legislativa (con limitate eccezioni) e l’indirizzo politico. I componenti diventano 100: 95 eletti internamente da consiglieri regionali e sindaci e 5 di nomina del presidente della Repubblica. E la durata del mandato dei nuovi senatori coincide con quella degli “organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti”. Tradotto: ogni volta che decade un Consiglio regionale -o si rinnova-, il Senato perde un pezzo dei propri appartenenti.
Tra i nodi più significativi spicca la cancellazione dell’elezione diretta da parte dei cittadini della camera alta (ad essere abrogato è l’articolo 58 della Costituzione): “Aver conservato la potestà di rivedere la Costituzione e far parte del processo legislativo ancorché gli si è negata l’elettività diretta da parte dei cittadini è una bruciante sconfitta del costituzionalismo -commenta Pace-. Quando si attribuisce la potestà legislativa a un organo, la fonte, com’è scolpito all’Articolo 1 della nostra Costituzione -la sovranità appartiene al popolo- non può che derivare dai cittadini”.
L’articolo 68 relativo all’immunità parlamentare, invece, è rimasto intatto. In questo modo, le maggiori garanzie in materia di arresto, indagini e intercettazioni interesseranno così sia i deputati (legittimamente) sia i “nuovi” senatori (consiglieri regionali e sindaci). In prima lettura il testo aveva limitato l’immunità ai soli deputati, ma con l’avanzare dell’iter la modifica è stata via via stralciata.

Il cuore delle modifiche costituzionali, ad ogni modo, sta nel “nuovo” articolo 70, quello sul “Procedimento legislativo”. Prima di entrare nel merito, l’avvocato Felice Besostri riflette su quella che definisce la “comprensibilità delle costituzioni”. Pensa al linguaggio, all’accessibilità dei periodi. “Nel testo della revisione ci sono punti incomprensibili persino a conoscitori della materia o docenti di diritto costituzionale -spiega-. L’Art. 70 della nostra Costituzione conta oggi nove parole e un solo comma: ‘La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere’. Il ‘nuovo’, invece, è fatto di sei commi, di cui solo il primo ha 195 parole”. Nel merito, la Camera dei Deputati accentra su di sé il potere legislativo, dettando al “nuovo” Senato tempi e modalità di partecipazione al processo. A seguito dell’approvazione di una legge da parte della Camera il Senato avrà 10 giorni di tempo per decidere se esaminarlo (a patto che a richiederlo sia un terzo dei componenti) e 30 giorni per deliberare proposte di modifica. Dopodiché la Camera sarà chiamata a “pronunciarsi” sulle proposte, che comunque non sono vincolanti. Le scadenze si fanno ancora più stringenti per le leggi in materia di bilancio (articolo 81 della Carta), rispetto alle quali il Senato sarà chiamato a deliberare le proprie “proposte di modificazioni” -mai vincolanti- entro 15 giorni. Al contrario, qualora il Senato -sempre che la maggioranza assoluta dei suoi componenti lo deliberi- volesse proporre alla Camera l’esame di un Ddl, questa avrà sei mesi di tempo per pronunciarsi.
“Per garantire l’efficienza del sistema bicamerale -commenta Besostri- sarebbe stata sufficiente una modifica del regolamento. Nella Costituzione, infatti, non è scritto da nessuna parte che quando termina una legislatura tutti i progetti di legge debbano decadere”.
Il peso del Governo cui si riferiva Pace è rappresentato dal nuovo articolo 72, all’interno del quale è stata aggiunta una sorta di “binario preferenziale” per i Ddl che il Governo dovesse dichiarare “essenziali per l’attuazione del programma”, chiedendo alla Camera di iscriverli “con priorità” all’ordine del giorno. È il rovesciamento di quel che la Carta in vigore stabilisce oggi: e cioè che non si possa delegare all’esecutivo se non “per tempo limitato e per oggetti definiti”.
Anche gli strumenti di partecipazione popolare cambiano, seguendo però quella che Besostri definisce una “procedura inutilmente aggravata”. La quantità di firme necessarie per poter depositare una proposta di legge di iniziativa popolare, infatti, triplica, passando da 50mila a 150mila (nuovo articolo 71). E nello stesso tempo il referendum abrogativo (art. 75) resta identico (500mila firme) ma comunque soggetto al nodo del quorum, eliminabile soltanto tramite la raccolta di 800mila firme e annessi certificati elettorali.

Sia Pace sia Besostri concordano su un punto: la “pericolosità” della revisione costituzionale è data dalla sua combinazione con un altro provvedimento, approvato nel maggio 2015 e prossimo all’entrata in vigore (nel luglio 2016). Si tratta della nuova legge elettorale (52/2015, “Italicum”), che per l’avvocato Besostri rappresenta il compiuto aggiramento della sentenza 1/2014 con la quale la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittimo il cosiddetto “Porcellum”. In particolare per quel che riguarda il premio di maggioranza di 340 seggi alla Camera (su 630, il 55%), “attribuito sia a una lista che abbia ottenuto il 40% dei seggi al primo turno sia a una lista che abbia vinto al ballottaggio, senz’alcuna soglia di partecipazione o di voti ottenuti al primo turno”. Un premio la cui entità “è inversamente proporzionale al consenso elettorale ottenuto”, come spiega Besostri, e che non consente all’elettore di avere un’idea precisa del destino del proprio voto, e che stride con il divieto di mandato imperativo per un parlamentare.

BOX

La revisione costituzionale è regolata dall’articolo 138 della nostra Carta. Questo stabilisce che le “leggi di revisione” e le “altre leggi costituzionali” debbano essere adottate da ciascuna Camera “con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi”. E che siano approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Se, a tre mesi dalla pubblicazione, dovessero farne richiesta un quinto dei membri di una Camera, cinque consigli regionali o 500mila elettori, allora si ricorrerebbe al referendum (che sarebbe invece escluso se la legge fosse stata approvata in seconda votazione da ciascuna Camera a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti). Nel caso della Ddl del Governo in discussione (descritta a partire da pag. XX), è già scontato il raggiungimento della soglia del quinto dei parlamentari per la richiesta del passaggio referendario, il che rende inutile la raccolta delle 500mila firme.

Fonte: Altreconomia