di Giovanni Lamagna

1.Penso che il tema sia talmente complesso e serio, anzi drammatico, che non possa essere ridotto (come, purtroppo, si sta riducendo, coinvolgendo anche persone molto intelligenti, colte e sensibili) a oggetto di disputa tra opposte tifoserie. Tra i “buonisti” e i “cattivisti”, tra gli “umanitari” e i “razzisti”, (addirittura!) tra i democratici e i fascisti.

Chi ritiene di avere LA SOLUZIONE (per giunta, facile) in tasca dimostra di essere uno sciocco.

Questo è un problema la cui soluzione (o, meglio tentativo di soluzione) deve tener conto di molteplici aspetti e quindi deve essere affrontato da più di un versante.

Chi ne affronta solo uno o solo alcuni (quelli che convengono di più alla tesi per la quale fa il tifo) va incontro a ragionamenti semplicistici e a trovare, perciò, soluzioni unilaterali e, dunque, parziali, se non del tutto sbagliate.

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2. Da quale punto bisogna partire per affrontare il problema? A mio avviso – potrà sembrare banale dirlo – bisogna partire dal dato di fatto stesso che esiste un Nord ed un Sud del mondo, un Nord sviluppato (e, quindi, ricco) e un Sud sottosviluppato (e, quindi, povero).

Questa differenza oggettiva, anzi macroscopica, da cui origina il problema (che è sempre utile ricordare, anche a costo di apparire ovvii), ha due ragioni di fondo.

Una naturale: le condizioni climatiche e ambientali: quelle del Nord più o meno favorevoli agli insediamenti abitativi; quelle del Sud estremamente sfavorevoli.

L’altra economica e, quindi, sociale e, quindi, politica: i popoli del Nord, godendo di condizioni climatiche e ambientali più favorevoli, hanno avuto uno sviluppo economico maggiore ed hanno, quindi, potuto, da oltre 4 secoli in qua, realizzare uno sfruttamento sistematico dei popoli del Sud.

Povertà ha, quindi, da sempre chiamato povertà. Ricchezza ha da sempre chiamato ricchezza.

Questo è il contesto geopolitico (antico) nel quale da alcuni (pochi) decenni si sta verificando il fenomeno (nuovo) di una ingente emigrazione di massa dal Sud verso il Nord del mondo.

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3. Ci sono elementi nuovi che, aggiunti ai due fattori antichi, hanno scatenato questo fenomeno relativamente recente? Certamente sì, altrimenti esso non si sarebbe verificato. Il divario Nord-Sud è, infatti, un fenomeno antico.

Come mai fino a pochi anni orsono esso non aveva dato luogo al fenomeno biblico dell’immigrazione di massa a cui stiamo assistendo ora? Evidentemente si sono verificate certe situazioni nuove che lo hanno provocato, innescato.

Allora quali possono essere queste situazioni nuove?

La prima potrebbe essere data dai grandi cambiamenti climatici che si stanno verificando sul pianeta da alcuni decenni. Per cui terre, già un tempo non propriamente favorevoli agli insediamenti umani, lo sono diventate ancora meno negli ultimi due o tre decenni. Sono diventate ancora più aride e quindi meno vivibili. La gente che vi abita tende, perciò, a scappare in cerca di habitat più favorevoli.

La seconda situazione è molto probabilmente legata alla globalizzazione. Fino a venti/trenta anni fa il mondo era rigidamente diviso in aree geografiche, non solo molto distanti tra di loro, ma anche incomunicabili tra di loro. La globalizzazione, con lo sviluppo dei mezzi di trasporto, ma soprattutto con gli strumenti della comunicazione informatica, ha reso il mondo più piccolo, quasi un “villaggio”. Oggi, quindi, è non dico più facile spostarsi da un capo all’altro del mondo, ma certo meno impensabile e non del tutto impossibile, anche avendo poche risorse economiche a disposizione.

La terza situazione – alcuni dicono – è data dalle guerre che affliggono molte delle terre dalle quali masse imponenti di popolazioni tendono a scappare.

Ma io, rispetto alle prime due, questa situazione la ritengo meno incidente sul fenomeno. Perché le guerre in questi territori ci sono sempre state, non sono un fenomeno recente. E, però, in passato non provocavano le enormi trasmigrazioni a cui stiamo assistendo solo da alcuni anni in qua.

Le prime due situazioni, a mio avviso, bastano ed avanzano per spiegare il fenomeno.

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4. Ci troviamo, dunque, di fronte ad un fenomeno che ha delle basi oggettive, naturali e sociali, che lo rendono (il termine non è forse esagerato) epocale. La domanda diventa, allora: come affrontarlo?

E qui casca l’asino. Perché a questo punto emergono le tifoserie, gli opposti estremismi, la tendenza a trovare soluzioni unilaterali e semplicistiche, di cui parlavo all’inizio.

I modi di affrontarlo a me sembrano essenzialmente tre:

a) l’elevazione dei muri, reali o metaforici; in pratica il respingimento “duro” di tutti coloro (o la gran parte di essi) che cercano di venire da noi, dal Sud verso il Nord;

b) l’accoglienza sostanzialmente indiscriminata, che si oppone ad ogni criterio di respingimento selettivo o pone criteri di selezione molto blandi, praticamente nulli;

c) un governo articolato, complesso e ragionato (non solo emotivo, sia in un senso che in un altro) del fenomeno, che tenga conto di più fattori e agisca quindi su più piani.

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5. L’elevazione dei muri, la chiusura dei porti, il rifiuto sostanziale di ogni forma di accoglienza mi sembrano modi inumani, eticamente, prima che politicamente inaccettabili, per chi abbia una sensibilità umanitaria, ancor prima che civile.

Non mi interessa definire questa posizione “fascista” o “razzista”. Credo che abbia poco senso (e, forse, sia addirittura scorretto) ricorrere a termini che si attagliano ad altri contesti storici o geografici.

Dico però che questa posizione è inaccettabile sul piano della umanità e, quindi, per me anche su quello politico. Su questo credo che non valga neppure la pena di spendere altre parole.

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6. La posizione che potremmo, invece, definire dell’accoglienza facile, se non proprio indiscriminata, merita un discorso molto più ampio e articolato.

Questa posizione si fonda, a me pare, su tre principi fondamentali. Innanzitutto sul principio dell’altruismo, dell’umanità condivisa e del soccorso al prossimo bisognoso.

Poi sull’idea che sia impossibile, quand’anche fosse condivisibile, realizzare il respingimento delle masse di immigrati che arrivano.

Infine, sul principio della convenienza, legata a due fattori: a) i nuovi arrivi compensano il calo demografico dei nostri paesi; b) i nuovi immigrati sono disposti a fare lavori che i nostri non vogliono fare più.

Il primo è un principio etico, il secondo è un principio di realtà, il terzo un principio economico.

Questa posizione non tiene però conto (o, perlomeno, a mio avviso, non tiene conto a sufficienza) di altri fattori ugualmente importanti.

Il primo è psicologico: il senso di invasione (reale o percepita: ha qui un’importanza relativa) provoca un istintivo, naturale e spontaneo moto di rifiuto, respingimento. Che è semplicistico e del tutto improprio definire come razzista o, addirittura, fascista.

Lo sanno bene, ad esempio, le persone anziane, che pur avendo bisogno (talvolta, assoluto bisogno) di badanti, spesso non ne sopportano la presenza.

Di questo senso di invasione e della conseguente reazione di rifiuto la politica non può non tener conto. Può non cavalcarli. Anzi non dovrebbe assolutamente cavalcarli. Dovrebbe, invece, provare a governarli con intelligenza.

Ma non può ignorarli del tutto. Chi li ignora dà, infatti, fatalmente spazio a chi li cavalca e si condanna, perciò, alla (quasi) irrilevanza.

Il secondo fattore è legato al concetto stesso di solidarietà e alla sua messa in pratica. E’ facile schierarsi, emotivamente e teoricamente, a favore della solidarietà e definirsi a parole solidali. Molto più difficile realizzare concretamente la solidarietà e, soprattutto, praticarla in prima persona. Affrontando e sostenendo i costi economici e psicologici che essa comporta e richiede.

D’altra parte, se fosse davvero così semplice e senza problemi vivere la solidarietà, non si capisce bene perché ciascuno di coloro che, a parole, si dichiarano così buoni, sensibili e umani (mentre gli altri – i cattivi, i razzisti, i fascisti – non lo sarebbero) non se ne faccia carico anche, anzi in primis, a livello individuale, accogliendo in casa propria e nella propria famiglia uno o più dei tanti immigrati che oggi arrivano in Italia.

Il terzo fattore è antropologico: l’integrazione delle culture, soprattutto quando sono così diverse, su certi punti addirittura opposte, non è affatto scontata, né tantomeno semplice: richiede tempi lunghi e processi complessi, che non si improvvisano e non si possono nemmeno troppo velocizzare.

La possibilità (non voglio dire il rischio) che culture altre (non voglio giudicare qui se inferiori o superiori), con i loro usi, costumi, abitudini, mentalità, comportamenti, modi di pensare, religioni… diventino prima o poi egemoni da noi, qui in Europa, è da escludere del tutto?

E, se non è da escludere del tutto, è poi del tutto e solo da demonizzare un atteggiamento difensivo, di timore, da parte degli indigeni italiani o europei? E’ del tutto e solo da condannare la paura di ritrovarsi prima o poi minoranza (diciamo pure ospiti) in casa propria?

L’atteggiamento difensivo, il timore, le vere e proprie paure che questo fenomeno, ancora tutto sommato nuovo, provoca nella grande maggioranza della nostra popolazione indigena, non vanno quantomeno compresi, se non proprio accettati?

E di questi fattori emotivi, nelle scelte politiche che bisogna fare per gestire il fenomeno, non va tenuto conto, come una delle variabili (importanti) del problema?

O ci dobbiamo accontentare di gridare al razzismo e al fascismo, dividendo così il mondo in buoni e cattivi, sentendoci ovviamente (e narcisisticamente) dalla parte dei buoni?

Sono problemi, questi, che non si possono minimizzare e sottovalutare con troppa faciloneria e superficialità. O, addirittura, non vedere del tutto, dimostrando, in questo caso, totale cecità politica.

Il quarto fattore è economico-sociale: è vero, infatti, che gli immigrati sono disposti a fare lavori che i nostri non vogliono fare più, ma è anche vero che sono disposti a fare pure lavori che i nostri vorrebbero ancora fare, ma a condizioni molto più sfavorevoli. Quindi è vero anche che abbassano obiettivamente il potere contrattuale dei nostri lavoratori nei confronti dei loro datori di lavoro.

Questa posizione non tiene, perciò, conto che l’accoglienza in massa degli immigrati risponde indubbiamente ad un’esigenza morale e di umanità, ma corrisponde anche (e, penso, altrettanto indubbiamente) agli interessi di un certo capitalismo globalizzato, che (anche in tempi di non globalizzazione) ha sempre, storicamente, anzi atavicamente, avuto bisogno di un esercito di riserva della forza lavoro. Per tenere questa sotto ricatto e quindi in una posizione di soggezione.

(Apro qui una parentesi. Ho letto il recente intervento di Marco Revelli, comparso su “il manifesto” del 16 giugno scorso, che definisce questo argomento una “troiata”. Ma non mi ha convinto. E per più ragioni.

Marco Revelli afferma che l’esercito di riserva di cui parlava Marx era un “esercito industriale”, “appartenente … a un’altra era geologica, prima che si affermasse il finanz-capitalismo, che lavora e comanda appunto non con i corpi ma col denaro. E che quella «narrativa» serve solo a giustificare la vessazione dei più poveri tra i poveri, non certo a contrastare i più ricchi tra i ricchi”.

A questa tesi rispondo: è vero che il capitalismo è oggi in buona quota finanziario; questo non vuol dire che sia scomparso del tutto il capitalismo industriale; lo sanno bene i nostri operai licenziati, perché le industrie vengono delocalizzate in zone (spesso della stessa Unione Europea) nelle quali il costo del lavoro è più basso di quello italiano.

Questo vuol dire che “l’esercito industriale di riserva” esiste ancora, eccome! E come esiste in Polonia (per fare un solo esempio) rispetto all’Italia, non si capisce perché non esisterebbe più anche all’interno della stessa Italia, tra lavoratori indigeni, abituati ad un certo regime contrattuale, e lavoratori immigrati, disposti ad accontentarsi di condizioni contrattuali al ribasso. E chiudo qui la parentesi).

Un altro elemento che è parte di questo fattore economico-sociale è il seguente: l’accoglienza dei migranti ha dei costi, non si può nasconderlo. In tempi di vacche magre, cioè di crisi economica e di tagli alla spesa pubblica e, in special modo, alle spese sociali, non si può negare che dirottare parte (anche minima) delle spese sociali sulla voce “migranti” significa sottrarla a nostri connazionali bisognosi: questo è un dato (matematico e, quindi, oggettivo) innegabile.

Che tende a rafforzare la tifoseria dei respingimenti e a indebolire (gravemente) la tifoseria dell’accoglienza senza limiti.

Un quinto argomento, contrario all’accoglienza “facile” è di natura geopolitica. Quelli che sono per l’accoglienza indiscriminata, tra le altre cose, affermano: non possiamo respingere queste persone che fuggono da guerre tremende.

Se andiamo ad analizzare, però, le cause profonde all’origine di queste guerre, scopriamo che in esse spesso sono coinvolti, in maniera diretta o indiretta, gli stessi paesi, i nostri paesi, che poi dovrebbero accogliere le masse di persone che fuggono da quelle guerre.

Paradosso certo non facile da spiegare ai nostri “cattivisti”, “razzisti” e “fascisti”.

Lo stesso discorso vale per le condizioni ambientali, economiche e sociali, da cui queste masse di persone fuggono.

L’Occidente fa ben poco per limitare i cambiamenti climatici e, quindi la desertificazione di regioni già ecologicamente difficili. Lesina poi i suoi aiuti per risollevare le condizioni economiche e sociali dei paesi del Sud. E però poi dovrebbe accogliere in massa le popolazioni che da quei paesi fuggono.

Anche qui c’è qualcosa che non funziona nel ragionamento ed è difficile spiegarlo ai nostri “cattivisti”, “razzisti” e “fascisti”.

Accenno appena alla questione del commercio illegale degli scafisti che trasportano su gommoni e barconi malandati masse (esageratamente superiori alla capacità consentita dai loro mezzi) di poveri disperati disposti a pagare cifre spropositate per il trasbordo in mare, in condizioni rischiosissime e spesso sottoposte a vere e proprie vessazioni, non poche volte abbandonate in mare prima dell’approdo alla riva.

O a quella, non sempre del tutto trasparente, anzi in alcuni (pochi?) casi decisamente opaca, delle varie organizzazioni umanitarie internazionali, che con le loro navi vengono in assistenza dei migranti che corrono il rischio di affondare nel Mediterraneo. Organizzazioni che compiono (per la maggior parte) indubbiamente azione meritoria, ma che talvolta sfuggono al coordinamento dei governi dei paesi presso i quali poi tendono a “sbarcare” le persone da loro soccorse.

Insomma, i “buonisti”, gli “umanitari”, i “democratici” rischiano (al di là delle loro ottime intenzioni) di recitare, rispetto a questo fenomeno, la parte degli “utili idioti” e di lavorare per “il re di Prussia”.

Rischiano, cioè, che le loro ottime intenzioni siano utili e funzionali (anche) a finalità e logiche non proprio del tutto “buone”, nel senso di veramente o esclusivamente umanitarie.

L’insieme di questi fattori e di questi ragionamenti mi porta a dire che manco questa seconda posizione, quella che io definisco (e non c’è nessuna ironia nel mio uso dei termini) dell’accoglienza facile o indiscriminata, sia del tutto condivisibile.

Anche se, come abbiamo visto, non lo è per motivi molto più complessi e articolati, di quanti non me ne siano serviti per respingere la prima.

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7. Ne consegue che per me l’unica soluzione allo stesso tempo umana, razionale e realmente efficace per affrontare questo problema è quella che tenga conto della sua enorme complessità e, quindi, dei vari e molteplici fattori che esso presenta.

In primo luogo, quindi, dei fattori antichi e di fondo che lo hanno originato.

Questi fattori risiedono nelle condizioni di sottosviluppo, economico e, di conseguenza, alimentare e abitativo, in cui le popolazioni che tendono ad emigrare sono da secoli costrette a vivere. Condizioni mai risolte, anzi forse addirittura aggravate, dal colonialismo e dal neocolonialismo imperialistico delle nazioni occidentali.

Ogni forma di solidarietà nei confronti di queste popolazioni è, dunque, effimera, è un mero palliativo, se non addirittura un’ipocrisia, se l’Occidente non rinuncia al suo (ancora attivo) sfruttamento neocoloniale del Sud del mondo e non vara un piano straordinario di investimenti e di rinascita epocale di questi territori.

Se non rinuncia, ad esempio, ad un modello di sviluppo che surriscalda oltre misura l’ambiente del pianeta e rende quindi ancora più inospitali le terre da cui, quindi, masse sempre più grandi di persone tendono a scappare.

Se non rinuncia allo sfruttamento massivo delle risorse di cui questi paesi in alcuni casi sono ricchi.

Se non rinuncia ad alimentare, in maniera più o meno diretta, le guerre che insanguinano le vite di questi territori.

Se non investe in piani di sviluppo di queste territori almeno altrettante risorse (ma sarebbe etico investirne molte di più) di quante non ne sono necessarie per accogliere coloro che ne fuggono per rifugiarsi da noi.

Da questo punto di vista lo slogan “aiutiamoli a casa loro” è indubbiamente adoperato da alcune forze politiche (in primis dalla Lega) in maniera strumentale e opportunistica, quindi ipocrita, ma non si può negare che, non solo in linea di principio ma reale e pratica, abbia una sua primaria e imprescindibile validità.

Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, sarebbe questa (quella di aiutarli a casa loro) la vera solidarietà che il Nord del mondo avrebbe la possibilità di dimostrare nei confronti del Sud del mondo. Senza, tra l’altro, incasinarsi nei problemi in cui si sta incasinando, non riuscendo manco a trovare loro efficaci e lungimiranti soluzioni.

Qualcuno obietta che, per dare vita a queste soluzioni, occorrono anni, anzi decenni. Il che è vero. Ma è anche vero che, se mai si comincia, mai esse potranno realizzarsi. Quindi converrebbe intanto cominciare.

Fatta questa premessa, che definirei di carattere primario, strutturale e strategico per affrontare il problema, resta assodato per me che i paesi del Nord (quindi anche il nostro) non debbano innalzare alcun muro nei confronti di chiunque, quindi anche nei confronti di coloro che vengono (meno che mai quando fuggono) dal Sud del mondo.

Questo non significa, però, che debbano essere disposti ad un’accoglienza indiscriminata e meno che mai senza filtri.

Il che vuol dire che bisogna filtrare il più possibile le partenze dai paesi (soprattutto dalla Libia) da cui avvengono, investendo lì risorse per la prima accoglienza (non certo in campi lager, come avviene ora) e per bloccare all’origine l’immigrazione illegale e clandestina.

Il che vuol dire combattere gli scafisti contrabbandieri del trasporto, fino ad eliminarne lo spregevole commercio mafioso.

Il che vuol dire imporre alle organizzazioni umanitarie, dedite a dare il primo soccorso ai naufraghi in mare, il coordinamento degli arrivi nei nostri porti.

Il che vuol dire combattere gli interessi mafiosi che in alcuni casi  gestiscono (in modo sciagurato) i centri di accoglienza a puri fini di arricchimento malavitoso. Vedi alcune inchieste della magistratura.

Il che vuol dire negoziare con l’Europa una gestione comune e corresponsabile del problema, perché ciascun paese dell’Unione se ne faccia carico.

Il che vuol dire programmare un numero massimo ragionevole di immigrati da poter accogliere ogni anno. Investendo risorse del bilancio dello Stato.

Il che vuol dire offrire un’accoglienza civile agli immigrati richiedenti asilo da noi, chiudendo i famigerati centri nei quali finora è avvenuta la prima permanenza e trovando per questa soluzioni diverse da quelle finora adottate.

Il che vuol dire programmare offerte di lavoro e residenze abitative per gli immigrati, che avranno ottenuto l’asilo, degne di un paese civile, idonee a rendere possibile l’integrazione dei nuovi arrivati con le popolazioni già residenti (vedi, sull’argomento, l’ultimo articolo di Guido Viale su “il manifesto”).

Senza queste due ultime condizioni gli appelli all’accoglienza umanitaria si risolvono effettivamente – questo va detto – in pura retorica buonista. Che non solo svuota di significato molte delle motivazioni da cui sono mossi quegli appelli, ma alimenta la propaganda a loro contraria.