di Ugo Magri

A cento giorni dalla nascita, la legge elettorale sembra figlia di nessuno. Nessuno la difende più e, anzi, tutti si preparano a sostenere che il pareggio (se di pareggio si tratterà) sarà colpa del Rosatellum. Piero Grasso e Silvio Berlusconi, anzi, lo vanno dicendo già ora. In qualche caso sarà una scusa per la mancata vittoria. In altri, riformare la riforma diventerà il pretesto per giustificare quel «governo di scopo» su cui sta puntando il partito trasversale delle larghe intese (Ptli). Il piano è semplice, quasi banale: nel caso di stallo diranno che rivotare sarebbe inutile senza una nuova legge, la quinta in un quarto di secolo; e dunque servirà un governo, necessariamente ampio, per rifarla daccapo.

Tra le tante motivazioni per non tornare alle urne, questa sarebbe tra le più serie. E andrebbe sicuramente in porto se, come qualcuno vocifera, in suo soccorso giungesse la Corte costituzionale. In che modo? Bocciando l’attuale sistema di voto. Rendendo così impossibile tornare alle urne senza che il Parlamento ci abbia rimesso mano. Era accaduto nel 2014, quando i giudici avevano fatto a pezzi il «Porcellum». La storia si era ripetuta con l’Italicum. Tra poco, si scommette tra gli «inciucisti», toccherà all’ultima legge elettorale.

Il primo banco di prova

Al momento sono soltanto chiacchiere, suggestioni, in qualche caso pie speranze. La Corte Costituzionale è alle prese con altre priorità. Deve eleggere il nuovo presidente perché Paolo Grossi scadrà tra dieci giorni. Non è chiaro chi riuscirà a spuntarla tra Marta Cartabia, molto sostenuta da Giuliano Amato, e Giorgio Lattanzì (cui l’incarico spetterebbe per anzianità). Al posto di Grossi, il presidente della Repubblica nominerà un nuovo membro che sarà ago della bilancia. Chi bussa al Palazzo della Consulta, si sente rispondere: «Sulla legge elettorale abbiamo già dato e per un po’ non ne vogliamo sapere». Addirittura qualche membro sostiene che «se ci verrà chiesto di tornarci sopra, saremo costretti a darci criteri più restrittivi e mettere un freno ai continui ricorsi».

Ne capiremo meglio il 21 febbraio, quando la Consulta terrà udienza sul voto degli italiani all’estero. Al tribunale di Venezia è venuto il dubbio che tra i nostri connazionali vicini e lontani possano commettersi brogli, perciò domanda alla Corte se non sia il caso di darci un taglio. Dall’aria che tira, difficilmente la richiesta verrà accolta. Sebbene di pasticci all’estero ce ne siano già stati e altri sicuramente ne vedremo, chi conosce il caso rimane parecchio scettico. Ammettere il quesito significherebbe creare il caos a 10 giorni dal voto. Stessa ragione per cui a Firenze e L’Aquila i tribunali hanno bocciato le richieste di inoltrare a Roma certi reclami d’urgenza contro il «Rosatellum». Nel caso, se ne riparlerà dopo il voto. E magari capiterà davvero.

Il «mood» della Corte

Pende difatti alla Consulta un caso «innovativo». Per contestare certi aspetti del «Rosatellum», un pool di legali coordinati da Felice Besostri (candidato in Liguria per Leu) non si è rivolto come da prassi al tribunale, ma ha sollevato direttamente conflitto di attribuzione davanti alla Corte. Il presupposto è che il «popolo sovrano» sia un potere dello Stato, come nelle costituzioni del Sud America ai tempi di Bolivar dove era espressamente previsto un «poder electoral del Pueblo». Altri ricorsi potranno arrivare da Trento, Trieste, Messina e anche Brescia, se i tribunali delle quattro città li riterranno fondati. Nel qual caso la Corte, sia pure controvoglia, se ne dovrà occupare. E ciò basterà per trascinarla nei giochi della politica.

Fonte: La Stampa