Caro Felice Besostri,
auguri di buon lavoro al convegno di Volpedo.
Purtroppo, assente desidero inviarti alcune osservazioni generali che concernono quella che oggi chiamerei l’identità socialista, quindi una cultura, parte importante di un modello che si compone di una serie di altri elementi: organizzativi, rappresentativi, partecipativi, comunicativi.
Nei contenuti questa cultura non può essere uguale a quella del nascente socialismo europeo, né a quello del secondo dopoguerra, ma può ereditarne lo spirito etico che è una fondamentale tradizione europea.
Accenno solo ad alcuni temi:
sarebbe importante tra i partiti europei di area socialista un livello programmatico comune che secondo alcuni principi generali diventi un senso comune diffuso , al di là del fatto che la peculiarità degli stati nazionali, ancora insuperati, e delle formazioni sociali richiedono adattamenti politici particolari. L’importante è che questo modello di cultura (come è sempre accaduto nella storia del socialismo) abbia una sua piena e concreta autonomia intellettuale che segni una diversità rispetto alla prospettiva  neoliberista e individualistica che ha prevalso nell’ultimo periodo invadendo purtroppo anche l’area socialista, spesso priva di una propria elaborazione, il che ha avuto un peso disastroso anche nella formazione dell’opinione comune.
Sarebbe importante sostenere il controllo pubblico dei flussi finanziari, privilegiando il credito per ogni iniziativa relativa alla economia verde, per l’industria dell’ambiente, per le iniziative pubbliche o private per la necessaria ecologizzazione delle città, per la trasformazione relativa all’uso di energie rinnovabili. E’ una prospettiva, sia a livello produttivo che a livello urbanistico che ha effetti sociali rilevanti, per esempio a livello occupazionale, perfettamente riconoscibili.
Mi pare importante ogni impegno che possa favorire la sindacalizzazione dei lavoratori nei paesi con uno sviluppo capitalistico differente rispetto alla nostra storia. Credo sia una risorsa possibile per rendere più difficile al processo di delocalizzazione che, in contrasto con il modello europeo, ha restaurato la derivazione del profitto dal tempo di impiego della forza-lavoro a parità di investimento tecnologico. Non vorrei che fosse proprio questa la “modernizzazione” o la “riforma” pensata dalla dirigenza industriale o manageriale. Questo è invece un problema difficile ma fondamentale per una prospettiva socialista.
Sarebbe importante disporre di una mappa approssimativa del profitto industriale (di cui non si parla mai) che consentirebbe di comprendere meglio sia gli investimenti (quantità e qualità) sia l’effetto sulla forma dei consumi, e quindi sulle forme della stratificazione sociale. Un progetto che consente la riproduzione produttiva in un contesto concorrenziale è diverso che un progetto che ha margini economici più vasti. Sono orientamenti che possono aiutare sia la comprensione del mercato del lavoro, sia l’intervento pubblico mirato a obiettivi sociali.
Mi pare ovvio l’impegno della educazione pubblica come aggiornamento tecnologico, ma non si deve trascurare affatto la tradizione umanistica europea  il cui declino è stato uno degli elementi della decadenza rovinosa della politica.
A livello internazionale, oltre l’impegno per l’estensione della sindacalizzazione che, fuori dalle chiacchiere ecologiche è la positiva costruzione di un diritto umano, credo siano utili rapporti stretti di scambio informativo e culturale con le varie esperienze del Sud America che hanno già contatti importanti con la tradizione democratica e socialista europea.
Per quanto riguarda il nostro paese qualsiasi iniziativa che inverta il processo di distruzione del tessuto costituzionale e di etica pubblica, è positivo. La crisi di ogni componente della sinistra storica dovrebbe rendere evidente la necessità della più ampia aggregazione secondo l’individuazione degli attuali problemi economici, sociali e culturali superando distinzioni ideologicamente arcaiche, identità immaginarie, fedeltà rituali, narcisismi personali. Questo è il compito di un ceto politico che non sia il tramite pubblico di affarismi privati quando non sia la collusione con gruppi a vario titolo malavitosi.
Questo è un punto centrale della vita pubblica e ad esso si oppongono di fatto interessi diffusi su tutto il territorio nazionale. E tuttavia per la formazione di una élite politica non esistono soluzioni miracolose di alcun tipo, ma piuttosto un processo che, in certa misura, è stato tradizionale della storia della sinistra. Il “politico” si forma nell’esercizio e nella pratica dell’amministrazione locale con un progressivo trasferimento di esperienza e di cultura a livelli superiori. Tutto il contrario nella cooptazione per meriti conformistici.
Ma è fondamentale  in questo quadro una ripresa della vocazione al lavoro e al servizio pubblico con una modificazione radicale dell’idea di potere e di privilegio sociale. Per questo sono favorevole  a una de-professionalizzazione della politica intesa come abolizione dello spazio politico come opportunità economica. Occorre smontare il reticolo di rendite politiche che è uno sperpero di risorse, la distribuzione di privilegi a una casta di oziosi e di lacché. Una prospettiva del genere, che non significa per nulla negare le necessarie risorse pubbliche per la gestione politica, è un elemento che di fatto seleziona le energie e il costume di chi porta con sé una vocazione politica. Non può che essere un processo lungo, ma è il solo concreto.
A livello storico sarebbe importante un’analisi storica sugli effetti che hanno avuto le occasioni mancate della sinistra storica, a cominciare dalla rovinosa scissione socialista del 1947. Ma questo è un discorso che vorrei proporre alla attenzione per le occasioni future.

Prof. Fulvio Papi Vice Presidente